Capitolo 2: Il Furto della scheda referendaria

La Costituzione prevede che il cittadino partecipi all’attività legislativa utilizzando diverse schede di voto: quelle propriamente elettorali, per scegliere i membri del Parlamento, dei Consigli regionali e delle amministrazioni locali; e quella referendaria, per correggere o cancellare le leggi sbagliate del Parlamento. Il voto referendario abrogativo di leggi, è la straordinaria invenzione dei Costituenti i quali, storicamente, hanno vissuto l’esperienza del regime fascista e quindi affrontano con diffidenza l’istituzione parlamentare. Tuttavia per più di vent’anni, la scheda referendaria non viene posta in attuazione: incomincia da qui, immediatamente, il processo di snaturamento e svuotamento della Costituzione; da qui i partiti cominciano a impadronirsi del “sistema” politico e a cancellare lo Stato di diritto.

2.1 La rivoluzione del referendum e la sua tardiva attuazione

La “convenzione antireferendaria” 1 del sistema politico italiano si manifesta anzitutto con il ritardo con cui un istituto “rivoluzionario” come il Referendum trova attuazione: il Parlamento provvede a varare la legge applicativa del referendum solo il 25 maggio 19702. Tale “conquista” è il prezzo pagato alla Chiesa come riparazione preventiva all’approvazione della legge sul divorzio che da lì a poco sarebbe stata approvata. Ma con la legge attuativa del referendum, il Parlamento non si limita ad applicare il dettato costituzionale, introduce una serie di altri limiti extra-costituzionali – principalmente di tipo temporale - tra cui l’impedimento a votare sui referendum nell’anno precedente lo scioglimento delle Camere o nei sei mesi successivi alle elezioni politiche. Proprio in forza di queste norme restrittive, nel 1972, per la prima volta nella storia repubblicana (l’escamotage si ripete nel 1976 e nel 1987)43 si sciolgono anticipatamente entrambe le Camere, per impedire la consultazione referendaria che potrà svolgersi solo due anni dopo. In questo lasso di tempo i partiti del cosiddetto “arco costituzionale” rappresentati in Parlamento si mobilitano per tentare di approvare proposte legislative, come quelle del liberale Aldo Bozzi, della indipendente di sinistra Tullia Carrettoni e del socialista Renato Ballardini, che, modificando la legge sul divorzio, possano impedire lo svolgimento del referendum.

Finalmente, nel 1974, il referendum si svolge, registrando un’ampia partecipazione al voto (87,7%) e la maggioranza dei cittadini – certo comunisti, socialisti, laici ma anche democristiani e missini – con quasi il 60% dice “no” non solo all’abrogazione della legge sul divorzio, ma anche alle indicazioni delle segreterie dei loro partiti, o alle esitazioni dimostrate prima del voto. Nel periodo immediatamente successivo anche i partiti “vincitori” tornano a riproporre, ad esempio col deputato Pci Alberto Malagugini e altri, il divieto di fare referendum prima di tre anni dalla pubblicazione della legge da abrogare e ipotizzano che la consultazione referendaria venga sospesa per sei mesi nel caso alle Camere si esaminino provvedimenti legislativi “riguardanti la materia”.

2.2 Il Golpe del ’78 e la giurisprudenza anticostituzionale

Il perfezionarsi dell’opera di sterilizzazione dell’istituto referendario si ha però solo con la giurisprudenza della Corte costituzionale, a cui – occorre ricordare - non la Costituzione, ma una successiva legge costituzionale4 ha demandato il compito di giudicare dell’ammissibilità dei referendum, ai sensi dell’elenco tassativamente circoscritto dall’articolo 75 secondo comma della Costituzione, che stabilisce che non possono essere sottoposte a referendum solo le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.

Con la sentenza n. 16 del 2 febbraio del 1978, si inaugura la giurisprudenza anti-referendum e anti-Costituzione della Corte costituzionale. Nel giudicare l’ammissibilità di otto referendum radicali volti ad abrogare, tra l’altro, il Concordato tra Stato e Chiesa, la Corte si distacca da una lettura tassativa dei limiti previsti dall’art.755 per sostenere l’esistenza - sulla base di una lettura “logico-sistematica” delle norme costituzionali – di una miriade di ulteriori limiti, frutto di un’interpretazione estensiva di quelli espressamente enunciati dalla Costituzione, ravvisandone sempre di nuovi di carattere implicito.

Nella stessa occasione il Comitato promotore dei referendum viene implicitamente riconosciuto come potere dello Stato e due mesi dopo, con un’ordinanza, ottiene il formale riconoscimento di soggetto competente a dichiarare definitivamente la volontà dei sottoscrittori. Tale riconoscimento non comporta però alcun potere sostanziale, in quanto esso si esaurisce al momento del voto referendario e non gli è riconosciuta alcuna legittimazione a preservarne l’esito da eventuali successivi travisamenti, ad esempio, parlamentari. Infatti, nel caso del referendum sul finanziamento pubblico dei partiti, la Corte dichiara inammissibile il ricorso del Comitato promotore contro la normativa approvata successivamente dal Parlamento che di fatto lo reintroduce.

Negli anni successivi la giurisprudenza perfezionerà un “complesso di ragioni di ammissibilità” 6 talmente articolato da rendere tecnicamente impossibile soddisfarle tutte, lasciando così il giudizio finale sulle leggi da abrogare, non al popolo italiano, ma al mero arbitrio della Corte7. Tale situazione è efficacemente sintetizzata dal Presidente emerito della Corte costituzionale Livio Paladin che in tema di ammissibilità del referendum afferma che “l’unica certezza è l’incertezza”.8 Sta di fatto che, nella storia repubblicana, a fronte dei 26 referendum validi, dei 20 che non raggiungono il quorum e degli 8 impediti da leggi sulla materia approvate in fretta e furia dal Parlamento, la Corte costituzionale boccia ben 48 quesiti referendari. La mannaia della Corte si abbatte su temi di grandissima rilevanza politica e civile, impedendo ai cittadini di pronunciarsi su Concordato tra Stato e Chiesa, Tribunali Militari, smilitarizzazione della Guardia di Finanza, modifica in senso uninominale delle leggi elettorali di Camera e Senato e del Csm, responsabilità civile dei magistrati, termini ordinatori e perentori, Servizio sanitario nazionale, pubblico registro automobilistico, patronati sindacali, cassa integrazione, ritenuta d’acconto, sostituto d’imposta, collocamento al lavoro, tempo determinato, part time, lavoro a domicilio, pensioni di anzianità, monopolio Inail, carcerazione preventiva, legalizzazione delle droghe leggere.

2.3 Il popolo vota, il regime fa il contrario, il quorum è fatto mancare

Il diritto costituzionale al referendum viene negato ai cittadini anche con il sovvertimento di esiti di consultazioni referendarie, in cui la volontà popolare si è espressa a stragrande maggioranza e in modo inequivocabile.

Nel 1987, ad esempio, nel referendum in tema di responsabilità civile del magistrato, il “Sì” ottiene una percentuale dell’80%. L’anno successivo il Parlamento approva una legge che di fatto introduce la completa irresponsabilità civile e personale del magistrato trasferendola allo Stato.

Nel 1993 viene soppresso tramite referendum il ministero dell’agricoltura e abrogata la legge sul finanziamento pubblico dei partiti, rispettivamente, con il 75% e il 90% dei voti validi. Quattro mesi dopo viene istituito il ministero per le politiche agricole e nel 1997, analogamente, il finanziamento pubblico dei partiti è reintrodotto attraverso il meccanismo volontario della destinazione del 4 per mille dell’Irpef. Il gettito effettivo è molto inferiore alle aspettative e, nel 1999, i partiti corrono ai ripari ripristinando il loro finanziamento pubblico attraverso i già esistenti rimborsi per le spese elettorali, quintuplicandoli. Una sorte simile è riservata al referendum sul maggioritario del 1993 (vedi parte corrispondente), sulla privatizzazione della Rai e sulle trattenute automatiche per l’iscrizione al sindacato del 1995 (reintrodotto dall’accordo bilaterale tra Confindustria e sindacati).

Il tradimento parlamentare del voto popolare, spesso indiscutibilmente maggioritario, è la ragione principale della disaffezione dei cittadini alle consultazioni referendarie successive, alle quali fanno mancare il necessario quorum di partecipazione. Ai mancati raggiungimenti del quorum contribuisce anche la tecnica utilizzata dal Governo, anno dopo anno, di fissare lo svolgimento del voto referendario in date oggettivamente “balneari”, cioè sempre più verso l’ultima domenica utile tra quelle che la legge dispone (“in una domenica compresa tra il 15 aprile ed il 15 giugno”).

Come se non bastasse, anche quando la maggioranza dei cittadini si reca alle urne, accade che il quorum non sia raggiunto sol perché alla sua determinazione concorrono anche elettori che sono morti o “dispersi”. È il caso del referendum del 18 aprile 1999 sull’abolizione della quota proporzionale nella legge elettorale della Camera dei deputati, quando a decidere l’esito non sono gli oltre 21 milioni di italiani che si recano al voto e che si pronunciano al 91,5% per il “Sì”, ma i 150.000 voti mancanti al raggiungimento del quorum. A decidere l’esito del referendum è in realtà il computo di 2.351.306 cittadini italiani residenti all’estero, dei quali però solo 13.542 (lo 0,5% degli aventi diritto) hanno ricevuto effettivamente il certificato elettorale.

La riprova dell’effettivo raggiungimento del quorum nel 1999 si ha l’anno successivo quando in vista del referendum del 21 maggio, a seguito di una iniziativa nonviolenta dei radicali, si ottiene la revisione straordinaria degli elenchi elettorali, in particolare di quelli dei residenti all’estero. Il risultato è la cancellazione da tali liste di oltre 350.000 persone tra deceduti e irreperibili. Se tale cancellazione fosse stata effettuata l’anno precedente, il quorum sul referendum sarebbe stato raggiunto e avremmo avuto un sistema pienamente uninominale nella legge elettorale della Camera dei deputati.

L’illegalità che connota le consultazioni referendarie è confermata e aggravata nel 2005, con il referendum sulla legge 40. In tale occasione, la previsione costituzionale di referendum abrogativo è materialmente cassata attraverso l’ammissione solo di quesiti parziali e indecifrabili e la bocciatura invece del chiarissimo quesito unico, totalmente abrogativo. Per di più, in tale occasione, la campagna referendaria avviene in aperta violazione di norme in materia di propaganda elettorale e, in particolare, dell’art. 98 del Testo Unico delle leggi elettorali, che vieta ai ministri di qualsiasi culto di “indurre gli elettori all’astensione”. Nel referendum sulla legge 40, infatti, dalle più alte gerarchie della Chiesa cattolica fino alle parrocchie dei paesi più sperduti durante la Messa, l’appello al non voto è ufficiale, ripetuto, documentato, veicolato da tutti i mezzi di informazione pubblici e privati.

In definitiva, l’istituto referendario così come disegnato dalla Costituzione repubblicana, è ormai distrutto. Agli italiani è concesso l’uso della “seconda scheda” solo in forma plebiscitaria e quando le componenti del Regime italiano lo scelgono.

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