Capitolo 5: Un presidenzialismo abusivo, mediatico ed extra-istituzionale
La lenta trasformazione delle funzioni e prerogative del Presidente della Repubblica muta il suo ruolo da quello di “garante” e di “custode” a quello di arbitro e mediatore fra le forze politiche. Così come il grande consenso popolare a un bipartitismo sul modello anglosassone viene trasformato dalla partitocrazia in un bipolarismo all’Italiana, che conserva intatto il potere dei partiti, il “Presidenzialismo” viene attuato in forme abusive: attraverso una lenta ma implacabile opera di svuotamento dei poteri istituzionali formali e degli strumenti a disposizione del Presidente (dal potere di grazia allo strumento del “messaggio alla Camere”, a quello del “rinvio” delle leggi al Parlamento), mentre si afferma un potere di fatto di esternazione diretta al popolo per mezzo della televisione. Parallelamente, al ruolo di garante della Costituzione si sostituisce quello di arbitro: perennemente impegnato nella “moral suasion” tra i partiti; fino all’ultimo clamoroso esempio: l’impotenza dimostrata in occasione della paralisi della Commissione di Vigilanza e degli “obblighi costituzionali inderogabili”, inutilmente invocati per mesi dal Presidente Giorgio Napolitano.
5.1 L’esternazione extra-costituzionale
La Costituzione non prevede alcun potere presidenziale di esternazione diverso da quelli formali che si esercitano attraverso i messaggi al Parlamento (artt. 74 e 87 cpv.). Al Parlamento, dunque, e non al popolo o alla nazione. Al di fuori di questi poteri formalmente previsti, l’”irresponsabilità” del Presidente della Repubblica durante il suo mandato dovrebbe far cadere ogni suo altro intervento pubblico sotto la responsabilità politica del Presidente del Consiglio o, a seconda delle competenze, dei singoli ministri. E’ una nozione costituzionale che praticamente si perde dopo lo scadere del mandato del Presidente Einaudi. Da allora i diversi presidenti, in particolare Cossiga, fanno un uso spropositato della cosiddetta “esternazione”. Negli ultimi due anni della sua presidenza, Cossiga si trasforma da garante della Costituzione in picconatore del Governo e delle altre istituzioni. Nell’agosto 1991 Pannella prepara l’impeachment, la richiesta di messa in stato d’accusa per attentato alla Costituzione e nel novembre successivo presenta una denuncia formale all’autorità giudiziaria nei confronti di Cossiga, sulla base delle stesse motivazioni. Solo nel dicembre del 1991 l’allora Pds presenta a sua volta la richiesta di impeachment. Dopo le elezioni politiche dell’aprile 1992 (e con un anticipo di dieci settimane rispetto alla scadenza naturale del suo mandato) Cossiga si dimette.
“Quando la Carta costituzionale ha voluto dar voce al Presidente della Repubblica, ha previsto il diritto di messaggio alle Camere. Il colloquio diretto del Capo dello Stato con il popolo non è previsto. Si può dire che non vi è norma che lo impedisca o lo condanni, ma non è previsto, soprattutto perché è un colloquio che finirebbe per passare sopra il Parlamento, con il quale invece è costituzionale il colloquio del messaggio.” Così Oscar Luigi Scalfaro nell’aprile del 1991. Parole che, conquistato il più alto incarico dell’organigramma istituzionale del nostro paese nel maggio 1992, Scalfaro pare sin quasi da subito dimenticare. Lo stile del presidente non cambia con il passare dei mesi, per cui anche per lui viene richiesto l’impeachment. I Club Pannella-Riformatori organizzano una raccolta di firme (oltre centomila) per spingere il Presidente della Repubblica a dimettersi, ma Scalfaro conclude senza particolari scossoni il suo mandato, difeso a spada tratta in particolare dal centrosinistra.
Le presidenze Ciampi e Napolitano si caratterizzano per la loro continuità nell’abuso del potere di esternazione. Un’esternazione che è, forse, meno eversiva nei contenuti rispetto a quella di Cossiga e meno “emergenziale” di quella di Scalfaro. Uno stile più da “italiani brava gente”, ma che comunque è fuori dal dettato costituzionale. Soprattutto a partire dalla presidenza Cossiga, i Presidenti della Repubblica sono quotidianamente impegnati in esternazioni su argomenti di qualsivoglia tipo, un “interventismo” che impedisce loro di svolgere il compito e la funzione per cui si trovano al Quirinale: quello di garanti della Costituzione.
5.2 1992-1993: L’acquiescenza alle interferenze della magistratura
La rinuncia ad esercitare questo ruolo si rivela in modo particolare durante il periodo di Tangentopoli, quando in seguito ad avvisi di garanzia emanati dai giudici di Milano, si afferma la pratica di sollecitare o accettare con quasi assoluta automaticità le dimissioni di ministri o di sottosegretari. Si crea un clima da caccia alle streghe, a cui il Presidente della Repubblica Scalfaro e lo stesso Presidente del Consiglio Amato non vogliono e non sanno reagire. Indipendentemente dalla gravità dei reati su cui i giudici indagano e dell’indignazione dell’opinione pubblica, non ci si rende conto della gravità del precedente che si contribuisce a creare, che mette nelle mani di un qualsiasi giudice, nella fase solo iniziale di un procedimento penale, il destino di un ministero o, come accaduto anche recentemente, di un intero Governo. Tanto più grave si dimostra questo atteggiamento corrivo nei confronti dei magistrati milanesi, manifestatosi anche in occasione del loro clamoroso pronunciamento contro un provvedimento del Governo, quando Scalfaro ritiene di dover reagire solo di fronte all’ipotesi di essere chiamato personalmente in causa: “Non ci sto”, proclama allora davanti alle telecamere.
5.3 1995: Il Presidente sordo (al “suo Parlamento”)
Il 28 settembre 1995, nel pieno della raccolta firme dei radicali su 20 referendum, 485 deputati e senatori di ogni parte politica - maggioranza assoluta nelle due Camere - si rivolgono al Presidente della Repubblica Scalfaro, nella sua qualità di supremo garante della Costituzione, per denunciare il tentativo di annullamento, da parte dell’informazione pubblica, dei referendum, e per chiedergli un intervento che consenta l’immediato ripristino della legalità e del diritto. La maggioranza assoluta dei parlamentari scrive al Presidente quello che i Radicali, inascoltati, denunciano da decenni: che ancora una volta è in corso un attentato ai diritti civili e politici dei cittadini. “Questa iniziativa – si legge nel documento - sostenuta da un ampio schieramento politico e parlamentare, ha incontrato un gravissimo e illegittimo ostruzionismo da parte della pubblica Amministrazione, del servizio pubblico di informazione radiotelevisivo, così come, del resto, da parte della stampa e del sistema televisivo privato”, e prosegue: “Non un servizio nei telegiornali e nelle trasmissioni di informazione è stato dedicato agli argomenti oggetto di referendum popolari. Si è così realizzato contro le leggi e i diritti politici dei cittadini, un autentico attentato silenzioso che proprio per questo suo carattere è stato ancora più efficace, doloso e violento”. Sempre il 28 settembre, Marco Pannella, intervenendo in diretta dall’ospedale ove è ricoverato al quarto giorno di sciopero della sete, chiede al Presidente della Repubblica “che ogni giorno parla su ogni argomento” di rispondere alla denuncia proveniente dalla maggioranza assoluta del Parlamento. Il Presidente si limiterà a un generico richiamo al rispetto della “par condicio”.
Il 21 novembre i parlamentari radicali Lorenzo Strik Lievers, Sergio Stanzani, Paolo Vigevano, con Rita Bernardini e Lucio Bertè della Segreteria del Movimento e altri militanti, sul palco del Teatro Flaiano di Roma, presentano i loro corpi completamente nudi, nella drammatica magrezza di chi è in sciopero della fame da 37 giorni, per rappresentare così la “nuda verità” di quanto sta accadendo. Sono 59 i parlamentari di tutti i partiti (molti dei quali dichiarano di non essere d’accordo sul merito di alcuni o di tutti i referendum, ma di voler difendere ugualmente il diritto all’informazione denegato) che si uniscono per un giorno al digiuno dei loro colleghi.
Tuttavia, nonostante continui il silenzio e l’inerzia del Presidente della Repubblica sull’attentato ai diritti civili e politici dei cittadini, alla fine, il successo arriva: al termine dei tre mesi che la legge stabilisce per la raccolta, quasi 12 milioni di firme autenticate e certificate vengono consegnate alla Corte di Cassazione.
5.4 2001: Il presidente incatenato sul potere di grazia
Se sull’esternazione i Presidenti del Repubblica degli ultimi anni fanno strame del diritto, sul potere di grazia, da loro concesso dalla Costituzione, sono invece vittime di incredibili interferenze partitocratiche. L’articolo 87 della Costituzione stabilisce che il Presidente della Repubblica “Può concedere grazia e commutare le pene”, e il successivo articolo 89 che “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità”.
In occasione della richiesta di grazia da parte di Ovidio Bompressi e di quelle avanzate in maniera trasversale da esponenti della politica e della cultura per Adriano Sofri, tra il 2001 e il 2006 si verifica un acceso conflitto di attribuzioni dei poteri tra l’allora Presidente Ciampi e il Guardasigilli Roberto Castelli. Per quest’ultimo la grazia non è una prerogativa autonoma del Capo dello Stato; nel 2001 respinge la prima domanda di grazia di Bompressi e si pone anche in netto contrasto con un’eventuale presa di posizione “spontanea” di Carlo Azeglio Ciampi in favore dell’assegnazione della grazia ad Adriano Sofri. I Radicali, Marco Pannella in particolare, si mobilitano per difendere la prerogativa del Presidente della Repubblica; devono contrastare, non solo una pesante campagna demagogica, ma anche gli Uffici legislativi e i collaboratori del Presidente Ciampi, segretario generale Gaetano Gifuni in testa. Un consigliere giuridico del Presidente arriva a scrivere, nel 2002, che “non esiste nel nostro ordinamento un potere autonomo del Capo dello Stato di concedere la grazia”: in pratica il Presidente si autoamputava di un proprio potere, contro la Costituzione.
Dopo 5 anni e mezzo dal suo inizio, la vicenda si conclude nel 2006, quando la Corte costituzionale stabilisce che il ministro della Giustizia non ha l’autorità di impedire la prosecuzione di un procedimento di grazia avviato dal Presidente della Repubblica. La Corte costituzionale riconosce dunque che i Radicali hanno ragione. La sentenza, tuttavia, viene emessa tre giorni dopo la scadenza del mandato presidenziale di Carlo Azeglio Ciampi, cui è stato di fatto impedito di esercitare il suo potere autonomo di grazia.