Capitolo 14: La negazione del diritto alla conoscenza

L’avvento della Repubblica per lungo tempo non produce mutamenti nella disciplina della radiodiffusione voluta dal regime fascista, imperniata sulla riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva e sul penetrante controllo politico circa l’assetto societario ed i contenuti dei programmi. Nell’Italia repubblicana, il controllo del consenso e del dissenso continua a essere assicurato principalmente attraverso il controllo del mezzo radiotelevisivo, in continuità con l’uso che il fascismo fece della radio e del cinema.

14.1 Dall’Eiar a Raiset

Una immutabilità segnata persino dalla continuità giuridica, oltre che delle strutture e del personale giornalistico, della concessionaria unica Rai rispetto all’Eiar, l’Ente italiano per le audizioni radiofoniche cui il fascismo ha riservato l’attività radiofonica.

Occorre aspettare il 1974 per vedere cancellato, sia pure parzialmente, il monopolio statale delle trasmissioni radiotelevisive, in virtù di due sentenze della Corte costituzionale che aprono il settore alle televisioni estere e a quelle via cavo. E’ lo stesso Presidente della Corte costituzionale, Francesco Paolo Bonifacio, in un articolo pubblicato sul Corriere della sera a due mesi dalla cessazione della sua funzione, a dare atto al Partito Radicale di aver contribuito a creare - attraverso la mobilitazione popolare intorno alla petizione contro il decreto Togni, che smantella i ripetitori delle tv estere, e alla raccolta firme per un referendum abrogativo delle norme del Codice postale che vietano le tv via cavo, purché si limitino all’ambito locale - il clima e le condizioni che spingono la Corte ad approvare quelle sentenze rivoluzionarie che porteranno al superamento del “monopolio pubblico” dell’informazione, per realizzare il “servizio pubblico”.

Comincia così il periodo delle radio libere in tutta Italia e, quasi subito, la comparsa anche delle prime televisioni private. L’entrata in scena di alcuni editori (Rusconi, Rizzoli, Mondadori) proiettano le televisioni oltre la dimensione locale (con accorgimenti tecnici che Radio Radicale è una delle prime a mettere in atto nel campo radiofonico).

La sentenza della Corte, dal valore dirompente ma transitorio, mette in moto un processo che occorre però regolare per legge. Gli orfani del monopolio Rai (i sindacati dei giornalisti radiotelevisivi, molti intellettuali di sinistra, i partiti di opposizione, una parte consistente della Dc che ha controllato fino ad allora il servizio pubblico) impediscono che questa legge si faccia, adottando un atteggiamento di boicottaggio e di difesa degli equilibri esistenti.

A beneficiare più di tutti dell’assenza di una nuova regolamentazione del sistema televisivo, mentre contemporaneamente aggira la normativa esistente, è Silvio Berlusconi. La posizione di monopolio della Fininvest nel settore privato, viene dapprima consentita di fatto, quindi ratificata a più riprese dalla partitocrazia: prima con il baratto del 1985, del quale si rende protagonista anche il Pci (che ottiene il controllo di Rai 3 in cambio del salvataggio alle reti di Berlusconi) poi a più riprese, con le leggi “Mammì” (1990), “Maccanico” (1997), “Gasparri” (2003). Di pari passo anche la Rai viene occupata dai partiti e “privatizzata” a loro uso e consumo, attraverso la lottizzazione

Una convergenza di interessi partitocratici che prosegue fino a oggi, nonostante la spinta a favore della concorrenza proveniente dall’Unione europea. Il 15 giugno 2002 il Parlamento europeo ha approvato una mozione nella quale esprime preoccupazione “per la situazione in Italia, dove la gran parte dei media e del mercato della pubblicità è controllato in forme diverse dalla stessa persona”, situazione che “potrebbe costituire una grave violazione dei diritti fondamentali a norma dell’articolo 7 del Trattato dell’Unione europea modificato dal Trattato di Nizza”. A ciò si aggiungono le reiterate sentenze della Corte costituzionale, di cui il caso “Europa 7” - emittente privata titolare di concessione ma priva di frequenze perché occupate illegalmente da una delle tre emittenti Mediaset – è significativa del mantenimento contra legem da parte della Rai di tre reti e della raccolta pubblicitaria. Nel gennaio 2008 la Corte di Giustizia dà ragione ad Europa 7, sentenziando che il regime delle frequenze in Italia è “contrario al diritto comunitario”.

In tal modo, il tanto declamato pluralismo della comunicazione – pubblica e privata – finisce per rispecchiare, salvo poche e poco rilevanti eccezioni, il “pluralismo” interno al sistema dei partiti, affidando alla mediazione dei loro apparati burocratici finanziati dallo Stato la gestione della comunicazione. Nel frattempo, in sessant’anni non è mai avvenuto un ricambio generazionale dei dirigenti e dei giornalisti della concessionaria pubblica.

14.2 La sistematica ed impunita violazione delle regole dell’informazione politica

Nel primo periodo della Repubblica non esiste regola che disciplini l’informazione e la propaganda politica attraverso il mezzo radiotelevisivo.

A parte l’immediato dopoguerra, quando la radio pubblica è caratterizzata da un dibattito politico vivace, contraddistinto da personalità e da temi anche anticonformisti (come quelli trattati nel dibattito pressoché giornaliero che si teneva nella rubrica radiofonica “Il convegno dei cinque”), ben presto la rottura dei governi del Cln - dovuta alla scelta atlantica ed europea della Repubblica italiana - riporta l’informazione politica sotto il rigido controllo del Governo, escludendo dal confronto non solo i partiti di opposizione (il Pci, il Psi di allora, il Msi) ma in gran parte anche gli alleati laici dei governi democristiani.

L’assenza di regole sull’informazione falsa palesemente le competizioni elettorali: nel 1958 il Partito radicale ed il Partito repubblicano, presenti alle elezioni politiche con liste comuni, devono rivolgersi al Presidente della Repubblica per denunciare la loro totale esclusione dall’informazione elettorale.

La situazione, nonostante l’entrata in scena della televisione a metà degli anni ‘50, si protrae fino al 1963 quando, a seguito di una sentenza della Corte costituzionale del 1960, i partiti di opposizione riescono a ottenere vere e proprie tribune elettorali, con dibattiti e conferenze stampa trasmesse dalla Rai dalle quali però sono escluse le forze politiche non rappresentate in Parlamento. I partiti del regime si assicurano così l’utilizzazione monopolistica della radio e della televisione, escludendone rigorosamente tutte le forze nuove che potrebbero in qualche modo turbare o concorrere a modificare gli equilibri, insieme immobili e logori, della vita politica italiana.

Gli anni successivi, grazie alle lotte del Partito radicale, sono caratterizzati dalla progressiva conquista di regole che restaurano presupposti minimi per la validità della consultazione elettorale. Nel 1968 e nel 1972 il Partito radicale denuncia l’illegalità delle elezioni politiche, decidendo di non presentare propri candidati e di invitare gli elettori a votare scheda bianca, e in pochi anni si ottiene, attraverso forti iniziative nonviolente e giudiziarie, una serie di storiche riforme: l’accesso alle tribune politiche dei partiti non rappresentati in Parlamento; la garanzia dell’equal time per tutti i competitori elettorali; il sorteggio dell’ordine di intervento; l’accesso alle tribune dei rappresentanti dei Comitati promotori dei referendum (ottenuto in occasione del referendum sul divorzio dopo 78 giorni di digiuno di Marco Pannella).

Sempre grazie a uno sciopero della fame e poi della sete di Marco Pannella, alle elezioni politiche del 1976 viene riconosciuto per la prima volta il principio della “riparazione” per soggetti politici cui è stato illegittimamente impedito l’accesso.

Da quel momento, la Rai e la Commissione parlamentare di vigilanza pongono in essere un’opera di smantellamento delle tribune, spostandole in fasce orarie di scarso ascolto, riducendone il tempo complessivo e adottando format che sterilizzano le tribune rendendole prive di interesse.

In breve tempo le tribune televisive passano da un ascolto medio di 19 milioni di telespettatori nel 1976 al milione e mezzo del 1986, ulteriormente dimezzatosi nel corso degli anni.

Contemporaneamente, dinanzi all’importanza assunta dalle consultazioni referendarie, gli spazi di accesso sono contratti, negando la peculiarità del Comitato promotore e diluendone la presenza con l’ammissione paritaria di decine di altri soggetti, tra partiti e comitati, ivi inclusi gli astensionisti.

Ottenuta la sostanziale eliminazione della possibilità per i cittadini di conoscere il dibattito politico secondo regole democratiche, a partire dalla seconda metà degli anni ‘80 si verifica lo spostamento della comunicazione politica nei programmi di intrattenimento, sottratti a qualsiasi vincolo regolamentare e controllati nelle conduzioni, così come i telegiornali, dalla lottizzazione partitocratica della Rai. Quando il legislatore completa il vuoto di regole per i programmi di informazione, l’applicazione della legge viene demandata a organismi di garanzia privi di adeguati poteri cogenti e comunque incapaci di assolvere le loro funzioni.

Alle elezioni del 2000, a seguito di una denuncia della Lista Bonino, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni con la storica delibera n. 70/00/CSP riconosce che Porta a Porta - il principale talk show politico, definito la “terza Camera del Parlamento italiano”- durante la campagna elettorale è un programma di comunicazione politica mascherato da informazione e che pertanto favorisce arbitrariamente alcuni partiti3. Immediatamente, con i successivi regolamenti, la Commissione parlamentare di vigilanza interviene - in contrasto alla lettera della legge 28/2000 e potendo contare sull’inappellabilità dei propri atti affermata dalla giurisprudenza amministrativa – per “legalizzare” i comportamenti in precedenza considerati una violazione della par condicio.

Gli anni seguenti sono segnati dalla costante violazione della legge 28/20004, in primo luogo attraverso regolamenti di attuazione volti a limitare l’accesso alla televisione dei soggetti politici alternativi alle due coalizioni Polo e Ulivo. Dal 2000 a oggi non v’è competizione elettorale o referendaria senza che l’ Autorità garante accerti ugualmente gravi violazioni della par condicio da parte dei programmi Rai e Mediaset. In questo contesto, nel 2000 vengono vietati gli spot televisivi, cioè l’unico strumento che si è rivelato efficace per il successo di forze politiche alternative, altrimenti non conoscibili dagli elettori.5 La sistematica violazione delle regole che disciplinano il sistema radiotelevisivo è possibile solo grazie all’impunità assicurata dal rifiuto sistematico dell’esercizio dell’attività giurisdizionale contro chi ha realizzato – dall’interno e dai massimi livelli dell’organizzazione della informazione e della comunicazione – veri e propri attentati ai diritti politici dei cittadini. Le iniziative giudiziarie in tal senso, avviate dal Centro Calamandrei e dai Radicali, registrano infatti la costante elusione dell’intervento della magistratura, così come quelle intraprese sul fronte della tutela dell’onore, della reputazione e dell’identità personale.6

14.3 Le questioni popolari cancellate dall’agenda

In questo regime dell’informazione, la principale preoccupazione è di negare ai cittadini la conoscenza e il dibattito politico e culturale su temi che possano mettere in difficoltà i poteri dominanti. Si ottiene questo attraverso il controllo dell’agenda televisiva, con le sue attualità ed i suoi approfondimenti. Da subito, ad esempio, viene sostanzialmente esclusa l’informazione sull’attività di organi costituzionali come la Corte costituzionale e il Consiglio superiore della magistratura. Sono accuratamente sottratte alla conoscenza vicende quali i poteri del Presidente della Repubblica (dal potere di esternazione a quello di grazia), l’assenza di plenum della Corte costituzionale e dello stesso Parlamento.

Sulle grandi questioni della politica italiana ed internazionale, sui temi popolari che toccano il vissuto dei singoli, mai è consentito un vero confronto. Dal divorzio all’aborto, dal finanziamento pubblico dei partiti alla giustizia, dal debito pubblico ai codici penali, dalla legislazione sindacale a quella sul lavoro, dalla fame nel mondo ai diritti umani, gli italiani non beneficiano mai di un serio confronto tra proposte alternative, oltre che di una informazione completa e imparziale. In questo modo, vicende fondamentali per la vita democratica sono trattate come questioni private.

Si spiega così anche l’accanimento antireferendario, che vede la Rai in prima fila nel tentativo –riuscito - di sabotare alla radice lo strumento costituzionale di democrazia diretta. I referendum, infatti, oltre che “spaccare” la compattezza del sistema partitico, sono per loro natura predisposti al confronto di posizioni su temi concreti, favorendo il contraddittorio e la riflessione sui fatti. Il silenzio informativo e l’assenza di approfondimento garantiscono a volte il fallimento della raccolta firme, altre volte il mancato raggiungimento del quorum, altre ancora l’impunita vanificazione delle vittorie referendarie.

Grazie al Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva, creato nel 1981 dal gruppo parlamentare radicale, per supplire alla mancanza di un servizio di monitoraggio pubblico dei programmi televisivi, che possa consentire un reale esercizio dei propri compiti alle istituzioni preposte al controllo e all’indirizzo della Rai, sin dai primi anni ‘80 sono prodotti studi statistici, incontestati, che dimostrano l’ utilizzo della televisione a tal fine.

Nel primo Libro bianco, il Centro d’ascolto analizza i radio e telegiornali Rai sotto il profilo dello spazio dato ai diversi argomenti al centro dell’agenda politica e istituzionale di quegli anni: i temi della fame nel mondo e del finanziamento pubblico dei partiti appaiono marginali rispetto allo spazio dedicato ad avvenimenti strettamente di partito come la Festa dell’amicizia e il Festival dell’Unità. Alla fame nel mondo l’informazione Rai dedica un totale di 33 minuti, mentre al finanziamento pubblico dei partiti è riservato poco più di un minuto, contro i 56 minuti dedicati al Festival dell’Unità e l’ora e 48 minuti alla Festa dell’amicizia. In pratica, l’informazione privilegia non la notizia, ma il partito.

Pochi anni dopo, nel 1984, un secondo Libro bianco analizza il periodo di 9 mesi in cui si svolge il processo nei confronti di Enzo Tortora, il presentatore che sceglie di fare del suo caso un’occasione affinché il paese affronti uno dei suoi problemi più endemici, la mala giustizia, e per questo è eletto al Parlamento europeo, da cui si dimette per poter essere processato senza l’immunità parlamentare. I dati mostrano come in quei nove mesi Tortora sia stato intervistato una sola volta dal Tg1, per 38 secondi, in occasione della sua deposizione in un aula di tribunale, e analogo trattamento viene tenuto dalla Rai nei confronti degli esponenti del Partito che sta combattendo la sua battaglia. Pochi anni dopo, in occasione del referendum radicale per una “giustizia giusta”, il popolo italiano mostra di avere in grande considerazione la questione, votando in massa per il “Sì”.

Il tema giustizia è di fatto sempre cancellato dall’informazione e dall’approfondimento politico della concessionaria di servizio pubblico anche nei decenni successivi, nonostante l’inefficienza dei nostri tribunali e l’incredibile numero di condanne internazionali subite dall’Italia per la lunghezza dei processi.

Stesso trattamento è riservato ai grandi successi italiani di politica internazionale degli ultimi 15 anni: sull’istituzione del Tribunale internazionale contro i crimini di guerra e contro l’umanità così come sull’approvazione all’Onu della moratoria delle esecuzioni capitali (che vedono l’Italia giocare un ruolo determinante), gli italiani hanno potuto a malapena apprenderne la notizia8. Anche quando il Parlamento italiano si esprime con decisioni importanti e uniche nel panorama mondiale - ad esempio in occasione del tentativo nel 2002 di scongiurare la guerra in Iraq attraverso una seria trattativa per l’esilio di Saddam Hussein - il blocco Raiset sottrae letteralmente ogni possibilità di conoscenza agli italiani e, di conseguenza, svuota la forza di quelle proposte istituzionali e politiche.

Le tecniche di predeterminazione dell’agenda politica attraverso il controllo dell’agenda televisiva via via si perfezionano: quegli stessi temi che sono stati dapprima esclusi dal pubblico dibattito al fine di soffocare le spinte di riforma provenienti dalla società civile, sono dopo anni proposti solo quando si compie il processo che può aprire la strada alla “controriforma”.

E’ il caso dei temi cosiddetti bioetici, cioè sulle libertà individuali.

Nel 2001, quando Luca Coscioni - un ricercatore universitario colpito dalla sclerosi laterale amiotrofica - diviene dirigente radicale e capolista alle elezioni politiche per dare corpo e parola all’idea di laicità della ricerca scientifica e delle istituzioni, 50 premi Nobel (tra cui il fisico inglese Stephen Hawking e lo scrittore Josè Saramago) e oltre 500 scienziati di tutto il mondo sottoscrivono un appello a sostegno della sua candidatura. Pur in presenza di uno sciopero della sete di Emma Bonino, dell’autoriduzione dei farmaci dello stesso Coscioni e di interventi pubblici del Presidente della Repubblica Ciampi e del Presidente del Consiglio Giuliano Amato, i temi della ricerca scientifica, del rapporto tra Stato ed individuo in materia di vita e di morte, sono completamente esclusi dai palinsesti televisivi di informazione e di approfondimento, salvo essere trattati a senso unico e contrario pochi giorni prima del voto su Rai 1, con 14 milioni di ascolto, nella trasmissione di Adriano Celentano, senza diritto di replica.

Negli anni successivi, a dispetto delle dichiarazioni dei due principali candidati premier di allora, Berlusconi e Rutelli, che giudicano tali argomenti estranei al confronto politico perché afferenti alle coscienze, proprio quei temi saranno oggetto di importanti atti legislativi e di governo.

In assenza di confronti televisivi, viene prima approvata la legge 40/2004 che vieta la ricerca scientifica sulle cellule staminali embrionali e limita fortemente la fecondazione assistita, poi sabotati i referendum abrogativi assicurando il mancato raggiungimento del quorum.

Una situazione analoga si ripete con la vicenda di Piergiorgio Welby, altro dirigente radicale affetto da distrofia muscolare e militante per la legalizzazione del testamento biologico e dell’eutanasia. Dopo che nell’inverno del 2006 la drammatica lotta di Welby per una morte degna “buca” la cortina di silenzio eretta dalle televisioni, gli italiani vengono letteralmente bombardati per due anni da messaggi di contenuto proibizionista e fondamentalista, diffusi principalmente dalla Rai. Nello stesso periodo la concessionaria pubblica riserva agli interventi del Papa e delle gerarchie vaticane, nell’informazione e nei programmi di intrattenimento, enormi spazi di presenza - addirittura superiori a quelli dei partiti sommati insieme - con modalità che non hanno precedenti nella storia italiana e persino negli stati islamici. Quando poi nel 2009 giunge a compimento un’altra storia che coinvolge gli italiani, quella di Eluana Englaro, telegiornali e programmi di approfondimento di Rai e Mediaset si mobilitano nel fornire una informazione scorretta e parziale, al fine di preparare il terreno al decreto legge del Governo che impedisca al papà di Eluana l’esercizio del diritto della figlia a rifiutare le terapie riconosciuto dall’articolo 32 della Costituzione.

Un altro studio del Centro d’ascolto, effettuato dopo le elezioni politiche del 2008, mostra le modalità con cui la questione “sicurezza” - nonostante i dati del Ministero dell’Interno certifichino una generale riduzione dei reati - diventi una delle principali questioni elettorali in conseguenza di una abnorme sovra-rappresentazione televisiva, nei due anni precedenti il voto, delle notizie di cronaca nera, giudiziaria e di criminalità organizzata. Nei telegiornali il tempo di esposizione di tali eventi è raddoppiato dal 10,4% del 2003 al 23,7% del 2007, divenendo spesso la notizia di apertura oltre che l’argomento maggiormente trattato dalle testate giornalistiche. Le innumerevoli puntate dedicate dai programmi di approfondimento contribuiscono poi a far perdere la temporalità dell’evento e a rendere sempre attuali gli episodi criminosi. Rarissimi invece sono i casi in cui la notizia riguarda in termini positivi la riabilitazione di detenuti o una immagine positiva dell’immigrato.

14.4 L’imposizione di protagonisti e antagonisti di Regime

L’operazione di indirizzo tematico del paese, del “di cosa si può parlare”, va perfezionandosi con l’imposizione mediatica dei protagonisti e degli antagonisti della vita politica.

La perimetrazione degli attori politici protagonisti – di volta in volta Dc e Pci, Polo e Ulivo, Pdl e Pd - è assicurata fino al 1976 con la formale esclusione delle forze non rappresentate in Parlamento e successivamente con la lottizzazione dei telegiornali e dei talk show, supportata dalle regolamentazioni fuorilegge della Commissione parlamentare di vigilanza e dalla oggettiva connivenza degli organismi di garanzia.

Nelle elezioni politiche del 2001, ad esempio, a fronte di cinque candidati premier, vanno in onda per oltre un mese comizi di un’ora ciascuno dei soli Berlusconi e Rutelli senza che siano presi provvedimenti efficaci per ripristinare la par condicio violata. Contemporaneamente, come documentato da una ricerca condotta dell’Università di Perugia, sono esclusi tutti i temi non funzionali alla contrapposizione tra questi due leader: l’unico tema che domina la campagna elettorale è “Berlusconi ed il conflitto di interessi”.

Gli anni seguenti sono caratterizzati dalla progressiva e tacita riserva degli spazi principali e delle interviste con le maggiori potenzialità di ascolto ai rappresentanti delle due coalizioni dominanti. Le analisi scientifiche sui telegiornali dimostrano che l’informazione televisiva privilegia non la notizia ma il partito, facendo del servizio pubblico uno strumento partitocratico di selezione dei temi e delle forze politiche ammesse al dibattito. Così determinati i protagonisti della vita politica, negli ultimi quindici anni il perfezionamento nel controllo del mezzo televisivo al fine di soffocare le spinte della società civile avviene tramite la promozione dell’antagonista ufficiale. Gli esempi più recenti sono quelli relativi a Rifondazione Comunista ed Italia dei Valori, o meglio, ai loro leader Fausto Bertinotti e Antonio Di Pietro. Tra il 2000 ed il 2005, infatti, Bertinotti è il politico più presente nella principale trasmissione di approfondimento politico della Rai, Porta a Porta: 68 volte (per una comparazione, Marco Pannella è presente 12 volte). Questa straordinaria presenza mediatica, sproporzionata anche rispetto al peso elettorale del suo partito è dunque necessariamente voluta. Per anni fornisce agli italiani l’indicazione dell’antagonista ufficiale, sottraendo spazio a forze politiche che agiscono come alternativa al sistema dei partiti. Qualcosa di analogo accade oggi con Antonio Di Pietro: basta rilevare che, successivamente alle elezioni politiche del 2008, Di Pietro è il leader politico più presente nelle tre principali trasmissioni della Rai, Ballarò (8 volte), Annozero (6 volte) e Porta a Porta (7 volte).

14.5 Il “genocidio politico e culturale” del movimento radicale

Nei sessantanni di Repubblica, dunque, le condizioni generali della vita politica istituzionale rendono sempre più difficile il “conoscere per deliberare”, principio base della vita democratica. In particolare, il controllo dei mezzi di comunicazione, dei temi come dei soggetti ammessi, fa si che non vi sia spazio per un partito che voglia concorrere, come vuole la Costituzione, alla determinazione della politica nazionale esclusivamente con le proprie proposte ideali e programmatiche. Proprio per la sua capacità di incardinare lotte istituzionali e politiche sui temi più popolari del paese, ancorati al vissuto dei singoli, il Partito radicale è dapprima marginalizzato dalla radiotelevisione, poi leso nella sua immagine e identità e infine cancellato.

Lo attestano quarant’anni di provvedimenti e di riconoscimenti provenienti dai massimi organismi istituzionali, giurisdizionali, politici e culturali.

La prima competizione elettorale cui il Partito radicale partecipa nel 1976, è preceduta da una trasmissione ad esso riservata quale simbolica riparazione riconosciuta dallo stesso Direttore generale della Rai per gli anni di ingiusta e totale assenza dalla televisione.

Due anni prima, dopo essere stati protagonisti insieme con la Lid della battaglia popolare per ottenere la legge sul divorzio, venivano del tutto esclusi dalle tribune referendarie precedenti il voto. E’ Pier Paolo Pasolini a rompere il muro di silenzio che circonda l’iniziativa nonviolenta di sciopero della fame di Marco Pannella9, con un articolo sul Corriere della sera nel quale sostiene che il motivo per cui “il mondo del potere – Governo e opposizione – ignora, reprime, esclude Pannella, fino al punto di fare, eventualmente, del suo amore per la vita un assassinio” è legato alla “sua prassi politica realistica. Infatti è il Partito radicale, la Lid (e il loro leader Marco Pannella) che sono i reali vincitori del referendum del 12 maggio. Ed è per l’appunto questo che non viene loro perdonato da nessuno”.

Nello stesso anno l’appello con cui i radicali convocano la prima marcia contro la Rai è sottoscritto da artisti ed intellettuali del calibro di Arrigo Benedetti, Alessandro Galante Garrone, Tinto Brass, Adriano Buzzati, Ignazio Silone, oltre a Pasolini.

Il 28 settembre del 1995, durante uno sciopero della sete di Marco Pannella di fronte al silenzio del sistema dell’informazione nei confronti della campagna referendaria in corso, ben 485 deputati e senatori sottoscrivono un appello al Presidente della Repubblica per denunciare che “è in corso un attentato ai diritti politici del cittadino” e per chiedergli di intervenire.10

Il 19 novembre del 1997, la Commissione parlamentare di vigilanza, visionati i dati e “rilevata la pressoché totale assenza dai dibattiti e dai confronti televisivi di temi sollevati con molteplici iniziative dal Movimento dei Club Pannella e dai suoi leader”, chiede alla Rai “di inserire tempestivamente nella programmazione televisiva trasmissioni di dibattito e di confronto su quei temi”.

Di fronte ai dati di presenza addirittura peggiori di quelli precedenti, la Commissione il 10 marzo 1998 dichiara che la Rai non ha “ottemperato agli indirizzi della Commissione. Infatti, dall’approvazione della risoluzione dello scorso 19 novembre, la Rai non ha programmato neppure un dibattito televisivo sul finanziamento pubblico dei partiti e sulla riforma elettorale, ed ha fatto partecipare in modo saltuario gli esponenti della ‘Lista Pannella’ alla gran parte dei dibattiti dedicati al tema delle droga.”

Il 15 maggio del 1998, in una lettera indirizzata all’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni - da poco istituita con il compito di garantire il rispetto delle norme sull’informazione politica -, il Presidente della Commissione di vigilanza, Francesco Storace, denuncia il comportamento della Rai come “un’operazione che non esito a definire di autentico genocidio politico-culturale.”11

Dal 1998 al 2009, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni accerta, praticamente in maniera ininterrotta sebbene sempre su denuncia di parte, squilibri editoriali e violazioni di legge perpetrate dalle tre emittenti Rai a danno dei Radicali, per un totale di 40 provvedimenti aventi ad oggetto 47 diversi programmi. Altre decine di provvedimenti riguardano le emittenti Mediaset.

Questi comportamenti contra legem si verificano sia nei telegiornali che nei cosiddetti programmi di approfondimento e persino nelle tribune politiche, nei momenti decisivi dei periodi elettorali e con lunghe assenze nei periodi non elettorali.

Se si considera il triennio 2006-2008, il Tg1 è condannato cinque volte per comportamenti a danno dei Radicali, il Tg2 e il Tg3 quattro volte. Le principali trasmissioni di approfondimento vedono invece Porta a Porta subire sette volte provvedimenti per il danno arrecato ai Radicali; Ballarò cinque volte; Primo Piano e Telecamere tre volte; i programmi di Santoro due volte. Matrix, principale trasmissione di Mediaset, cinque volte.

Infine, l’intera programmazione informativa della Rai è oggetto di richiamo per squilibri nei confronti dei Radicali da parte dell’Autorità nel 1999, nel 2001 e nel 2006, da parte della Commissione parlamentare di vigilanza nel 1997, nel 1998, nel 2001, nel 2002 e nel 2007. Si tratta di un unicum nel panorama italiano e forse mondiale: non esiste infatti altro soggetto politico che possa in modo anche parziale avvicinarsi per numero, gravità, varietà e durata degli accertamenti di squilibri editoriali e violazioni degli obblighi di informazione. Parimenti, non esiste caso di leader politico che sia così marginalizzato come Marco Pannella, agli ultimi posti delle classifiche di presenza sia nei telegiornali che nelle trasmissioni di approfondimento, nonostante l’oggettiva straordinaria rilevanza della sua attività politica.

Nel marzo 2009, di fronte all’evidenza di questa strutturale e sistemica mancanza di apertura nei confronti della forza politica e culturale radicale, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, per la prima volta, contesta alla Rai, ai sensi dell’articolo 48 del Testo unico della radiotelevisione, l’inadempimento degli obblighi di servizio pubblico.

14.6 Il compiuto attentato ai diritti civili e politici

La radio prima e la televisione poi sono state asservite all’esigenza di circoscrivere gli argomenti ammessi alla pubblica conoscenza e di predeterminare i soggetti cui consentire l’accesso, con l’obiettivo di abolire l’agenda reale del paese ed imporre protagonisti ed antagonisti di regime.

Un obiettivo perseguito e raggiunto innanzitutto impedendo concorrenza e libertà di impresa, difendendo il monopolio pubblico della Rai ed il successivo monopolio privato di Mediaset anche contro le sentenze dei massimi organi giurisdizionali nazionali ed europei. Facendo del servizio pubblico il luogo di spartizione partitocratica, dapprima a uso esclusivo delle forze di governo e successivamente oggetto di scientifica lottizzazione da parte dei maggiori partiti.

Ogni qualvolta poi sono conquistate regole democratiche che assicurino ai cittadini informazione e conoscenza, esse sono sistematicamente violate nella certezza della totale impunità, garantita dal costante rifiuto all’esercizio dell’attività giurisdizionale da quella stessa magistratura che rappresenta da anni la ragione sostanziale della mancata tutela dell’onore e della reputazione in Italia.

Lo strutturale asservimento dei più popolari mezzi di comunicazione si è da subito legato con la forte limitazione del diritto alla libertà di espressione, sancito dall’articolo 21 della Costituzione, realizzata con l’istituzione nel 1963 dell’Ordine dei giornalisti e subordinando la liceità di ogni pubblicazione all’iscrizione all’albo dei giornalisti del suo direttore responsabile (a questo proposito è tuttora in corso il processo a Pippo Maniaci, direttore della tv Telejato, combattuto dalla mafia e contestato dall’Ordine dei giornalisti perchè “non iscritto”). Una norma illiberale, che ha origine nel periodo fascista e non trova eguali negli altri stati democratici, sottoposta a referendum nel 1997 per iniziativa dei Radicali dopo che gli stessi hanno tentato di vanificarne gli effetti offrendosi come direttori responsabili delle principali testate dei movimenti extraparlamentari. La maggioranza dei votanti si esprime per l’abrogazione dell’Ordine dei giornalisti, ma dopo una campagna elettorale silenziata dal sistema dei media non è raggiunto il quorum.

Su tutto questo, sul sistema radiotelevisivo e sulle modalità con cui garantire la circolazione delle idee e rendere possibile la conoscenza, in 60 anni il paese non può mai avere un pubblico dibattito.

L’unica eccezione si ha nel 1995, in occasione del voto su quattro referendum, quando vengono a confrontarsi due alternative opposte di intervento sulla legislazione radiotelevisiva. Da una parte i Radicali, che individuano nella Rai il nodo centrale da sciogliere per arrivare a una riforma complessiva, chiedendone la privatizzazione e l’abolizione della pubblicità (quest’ultimo quesito non ammesso dalla Corte costituzionale), dall’altra i “progressisti”, che vogliono colpire il monopolio del settore privato in mano alla Fininvest per meglio proseguire l’occupazione partitocratica del servizio pubblico. Gli italiani votano a favore solo del referendum radicale, ma negli anni seguenti il Parlamento ignora l’indicazione espressa dal corpo elettorale.

La funzionalità di tale assetto di potere a un sistema politico che per sopravvivere è costretto a violare la propria legalità, trova conferma nel fatto che su questo tema nessuna grande manifestazione è mai convocata da chi ne ha la possibilità effettiva. Solo il Partito radicale tenta di investire l’opinione pubblica del problema informazione, a partire dalla prima marcia contro la Rai che si tiene il 20 settembre 1974 e che porta alle dimissioni di Ettore Bernabei, il Direttore generale che ha governato per vent’anni la Rai a monocolore democristiano.

I pochi strumenti scientifici di monitoraggio della democrazia, del “quarto potere”, vengono ridotti all’impotenza dopo che per anni se ne era impedita l’esistenza. È il caso del Centro d’ascolto dell’informazione radiotelevisiva, il primo e più autorevole centro di monitoraggio televisivo che, proprio in ragione della sua indipendenza ed autorevolezza scientifica, nel 2008 è stato privato dei contratti con l’amministrazione pubblica e costretto a interrompere le sue attività. Si elimina così persino la possibilità effettiva di conoscere la realtà del sistema radiotelevisivo.

L’interesse è impedire che ai cittadini italiani giunga una informazione completa e imparziale del reale dibattito politico, come quella ad esempio assicurata dal servizio pubblico di Radio Radicale, che dal 1976 porta nelle case degli italiani dibattiti che avvengono in Parlamento e nei congressi di partito.

Da decenni i Radicali agiscono come attivatori di legalità, dei diritti di libertà costituzionali, attraverso la conquista di regole e la lotta per il rispetto delle leggi vigenti.

Proprio per questo, sono l’unica forza politica che da cinquant’anni viene costantemente ostracizzata, diffamata, cancellata, nel timore che dando accesso ai Radicali si aprano spazi di conoscenza su argomenti scomodi al regime e potenzialmente generatori di aggregazioni politiche e sociali alternative.