Capitolo 15: Gli ultimi anni del regime
Dalla marcia per l’amnistia alla cancellazione della Commissione di vigilanza, il perfezionarsi della non-democrazia verso le prossime elezioni europee.
15.1 Sugli “obblighi costituzionali inderogabili” e sulla partecipazione dei Radicali alle elezioni europee
Per ottenere condizioni simili a quelle che si sono determinate in vista delle cosiddette “elezioni europee” del giugno ’09, in altri tempi sarebbe stato necessario far ricorso ai “colonnelli”: tribune elettorali cancellate per un anno; cancellata la Commissione parlamentare di vigilanza assieme a quelle funzioni costituzionali di controllo ad essa attribuite. Lo stesso Presidente della Repubblica, nell’estate 2008, era intervenuto per richiamare gli “obblighi costituzionali inderogabili” che invece erano disattesi, ma anche il suo intervento rimase completamente inascoltato.
Si preparano così elezioni europee prive di connotazioni democratiche nel senso tecnico, riservate e garantite unicamente alle diverse “gambe” del regime monopartitico e agli “oppositori” scelti come ufficiali. Per aiutare i massimi responsabili istituzionali a trovare soluzioni a questa situazione, i Radicali hanno fatto di tutto: scioperi della fame e della sete, occupazione di luoghi istituzionali, iniziative giudiziarie. La partecipazione della Lista Bonino-Pannella alle prossime elezioni è finalizzata ad approfittare anche di questa occasione per cercare di svelarne i suoi connotati sostanzialmente violenti e autoritari.
Di seguito, sono ripercorse alcune delle vicende degli ultimi anni attraverso le quali è possibili leggere l’aggravarsi delle condizioni di negazione dello Stato di diritto.
15.2 La marcia di Natale 2005 per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché nove milioni di processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese
(…) “Quello che di impressionante vi è da sottolineare immediatamente all’attenzione di tutti voi è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell’arretrato o meglio ancora del debito giudiziario dello stato nei confronti dei cittadini: 5 milioni e 425 mila i procedimenti civili pendenti, 3 milioni e 262 mila quelli penali. Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure ad eliminare un numero almeno pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema.” [Ministro della Giustizia Angelino Alfano, 27 gennaio 2009, aula della Camera dei deputati, relazione sull’amministrazione della giustizia]
La situazione delle carceri italiane è “fuori della Costituzione”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Angelino Alfano intervenendo al convegno Rete Italia in corso a Riva del Garda. [ANSA 15 marzo 2009].
Basterebbero queste due dichiarazioni del Ministro in carica per comprendere che quella della “giustizia” è la più grande questione sociale del paese. Ma c’è dell’altro.
In un suo rapporto il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa è sferzante: “Solo per il periodo che va dal gennaio 2001 a dicembre 2004, delle 998 decisioni e sentenze rese dalla Corte Europea relative all’Italia, 799 riguardano l’articolo 6 della Convenzione Europea sui Diritti Umani, nella maggior parte dei casi in relazione a ritardi del procedimento giudiziario… Al 30 giugno 2004 oltre nove milioni di casi erano in attesa di giudizio. Ad essi bisogna aggiungere i centomila casi pendenti soltanto alla Corte di Cassazione. In base a tali cifre, circa il 30 per cento della popolazione italiana è in attesa di una decisione giudiziaria”.
Quando si dice “in attesa”, significa che c’è chi quell’attesa la trascorre in carcere; e gli istituti di pena italiani sono tali nel senso letterale:
“La realtà penitenziaria continua ad essere caratterizzata dal preoccupante dato del crescente sovraffollamento delle strutture detentive. Gli effetti dell’indulto approvato dal Parlamento con legge 31 luglio del 2006, n. 241, si sono ben presto rivelati del tutto insufficienti e provvisori, se è vero che da un totale di 38 mila e 847 presenze registrato il 31 agosto del 2006 si è passati alle 43 mila e 957 del 30 giugno 2007, per giungere alle 52 mila e 613 del maggio 2008. La scorsa notte hanno dormito nelle nostre carceri 58 mila e 692 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 42 mila e 957 posti e di una cosiddetta di necessità di 63 mila e 443 posti: dati che indicano chiaramente come la crescita dell’andamento delle carcerazioni si stia rapidamente attestando sui livelli drammatici del periodo preindulto.” [Ministro della Giustizia Angelino Alfano, 27 gennaio 2009, aula della Camera dei deputati, relazione sull’amministrazione della giustizia]
All’inizio di marzo i detenuti nelle carceri italiane avevano raggiunto la cifra di 60.570 e, secondo l’associazione Antigone “a Napoli siamo addirittura a 2.700 detenuti per 1.300 posti: quello di Poggioreale è il carcere più affollato d’Europa. Lì come nel resto d’Italia l’effetto indulto è stato annullato da tempo e siamo tornati alla situazione di sempre.” [Corriere della Sera, 15 marzo 2009]
I rapporti ufficiali del Dipartimento per l’Amministrazione della Giustizia dicono che almeno la metà degli istituti penitenziari dovrebbero essere chiusi, luoghi di tortura più che di riabilitazione come la Costituzione prevede e prescrive: celle dove si ammassano il doppio dei detenuti previsti, condizioni igieniche e sanitarie da terzo mondo, assistenza insufficiente, personale ridotto che si trova a lavorare anch’esso in condizioni di estremo disagio. Un numero impressionante di suicidi e tentati suicidi, spesso di ragazzi che decidono di farla finita dopo pochi giorni di detenzione… Intanto nei tribunali i processi si trascinano, si accumulano; ogni anno cadono in prescrizione 140.000 processi penali: un’amnistia strisciante, continua, di classe: perché chi ha disponibilità economica e si può permettere un principe del foro che conosce tutte le scappatoie che la legge e i codici consentono, è in grado di trascinare il procedimento per mesi ed anni, fino a quando “per legge” si estingue. Il povero diavolo invece, paga subito. Per non dire dei “detenuti in attesa di giudizio”: persone che finiscono in carcere per un tempo imprecisato, e col tempo – ma con comodo – si scopre magari che sono vittime di un errore, di un’omonimia, di una suggestione; e dopo settimane e mesi di ingiusta detenzione sono scarcerati.
Questo quadro, per sommi capi, è quello che porta nel novembre del 2005 Pannella – che già aveva condotto uno sciopero totale della fame e della sete per sette giorni coincidenti con l’agonia e la morte di Papa Giovanni Paolo II che fin dal 2000, in Parlamento, aveva chiesto un atto di clemenza per i detenuti - e i radicali si rivolgono a tutti i partiti, a cominciare da quelli dell’Unione di Romano Prodi, per rimettere il tema dell’amnistia nell’agenda politica.
L’appello che costituisce la piattaforma dell’iniziativa politica chiede un indulto di almeno due anni, “che possa sgravare di un terzo il carico umano che soffre - in tutte le sue componenti, i detenuti, il personale amministrativo e di custodia - la condizione disastrosa delle prigioni”. Contestualmente si chiede un’amnistia, “la più ampia possibile; l’obiettivo è quello di ridurre di almeno un terzo il carico processuale della Amministrazione della Giustizia perché essa possa, liberata da processi meno gravi, proficuamente impegnarsi a concludere quelli più gravi”.
Tra le varie iniziative messe in campo, una “Marcia di Natale 2005 per l’amnistia, la giustizia, la libertà. Perché 9 milioni di processi pendenti sono la più grande questione sociale del paese”. E’ la prima volta che in Italia si manifesta, in queste forme “di massa”, per la Giustizia Giusta. Mai prima un grande partito o sindacato si era mai impegnato su questo tema. E anche dopo…
Giungono le prime adesioni, un arco di forze amplissimo, capeggiato dai senatori a vita Giulio Andreotti, Francesco Cossiga, Giorgio Napolitano.
Il 7 dicembre Pannella inizia uno sciopero della fame: “tre giorni di dialogo, di incoraggiamento e di amicizia”. Si rivolge in primo luogo al Presidente del Consiglio Romano Prodi, a Piero Fassino, leader dei Ds; e ai tre segretari di Cgil, Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Savino Pezzotta, Luigi Angeletti: “i responsabili della organizzazioni che in questi anni si sono specializzate nella convocazione delle grandi manifestazioni di massa”.
Qui conviene ripercorrere le tappe salienti dell’iniziativa pro-amnistia e pro-indulto.
Il 14 dicembre un comunicato firmato da Prodi, Fassino e Rutelli rompe il silenzio sulla questione amnistia: «L’Unione chiede alla maggioranza di governo di dare una risposta chiara ed inequivocabile».
Crescono le adesioni al comitato promotore della marcia. Ne fanno parte tra gli altri: don Antonio Mazzi, presidente della Fondazione Exodus; i senatori a vita Giulio Andreotti, Emilio Colombo, Francesco Cossiga, Rita Levi Montalcini, Giorgio Napolitano, Sergio Pininfarina; i presidenti emeriti della Corte costituzionale Giuliano Vassalli e Antonio Baldassarre; don Luigi Ciotti, fondatore del Gruppo Abele, don Andrea Gallo, fondatore della Comunità San Benedetto al Porto di Genova, Mario Marazziti, portavoce della Comunità di Sant’Egidio…
Il 17 dicembre il parlamentare della Margherita Roberto Giachetti chiede la convocazione straordinaria della Camera. Il 22 dicembre Giachetti annuncia di aver raccolto il numero di firme necessario per la convocazione della seduta straordinaria.
La mattina del 25 dicembre la “Marcia per l’amnistia e la giustizia, la libertà”, aperta da don Mazzi e don Gallo, da Napolitano, Cossiga e Pannella, parte da Castel Sant’Angelo e transita poi davanti al carcere di Regina Coeli, al Senato, alla Camera dei Deputati, a Palazzo Chigi per poi concludersi di fronte al Quirinale.
Il 27 dicembre sono 136 i deputati che partecipano alla seduta straordinaria della Camera per dibattere di amnistia. La stragrande maggioranza di loro (93) aveva aderito alla richiesta di convocazione promossa dall’onorevole Giachetti e sottoscritta da 205 colleghi. La Camera non vota il provvedimento: il presidente dell’assemblea Casini incarica la Commissione giustizia di Montecitorio di riunirsi e discutere un testo su un provvedimento di clemenza per l’inizio di gennaio.
Il 13 gennaio 2006 la Camera dei deputati dice no al testo licenziato dalla Commissione giustizia per l’amnistia e l’indulto. Viene infine votato (con l’opposizione di Lega e An) un provvedimento di indulto che decongestiona temporaneamente le carceri sovraffollate; la proposta di amnistia, che avrebbe eliminato una quantità di procedimenti destinati comunque a finire prescritti consentendo ai magistrati di potersi dedicare ai reati più gravi e urgenti, in seguito a una furibonda campagna di stampa condotta dal centro-destra (ma anche, bisogna ricordarlo, con la complice ignavia del centro-sinistra) non viene mai votata.
Il provvedimento, monco, consente benefici limitati e temporanei. Al provvedimento di indulto non fa seguito alcuna politica tesa al reinserimento nella società del detenuto liberato; cosicché si creano tutti i presupposti perché torni a delinquere e ritorni in carcere. Ora la situazione della giustizia è tornata ad essere quella in cui versava prima dell’indulto: carceri sovraffollate, oltre sessantamila detenuti, ventimila in più di quelli che gli istituti di pena sono in grado di “ospitare”, la metà circa in attesa di giudizio. L’ex ministro della giustizia Clemente Mastella, recentemente intervistato, ha ricordato che l’indulto era stato voluto da tutti, e che sarebbe stato necessario anche un provvedimento di amnistia. Ma oggi come ieri si preferisce l’amnistia strisciante, quotidiana e di classe per prescrizione, fenomeno che lascia completamente indifferenti chi allora, in nome di un malinteso senso di giustizia, si oppose all’iniziativa radicale. Un’amnistia all’italiana insomma, che si verifica nei fatti e di cui nessuno si assume la responsabilità politica.
15.3 Il “Porcellum” del 21 dicembre 2005
La legge del 21 dicembre 2005 n.270 introduce un sistema per l’elezione della Camera dei deputati di tipo interamente proporzionale, con l’eventuale attribuzione di un premio di maggioranza in ambito nazionale che sostituisce quello misto, precedentemente in vigore.
I deputati sono eletti in proporzione ai voti ottenuti dalle liste concorrenti presentate nelle 26 circoscrizioni (un deputato viene eletto con metodo maggioritario nel collegio uninominale della Valle d’Aosta). La legge prevede che i partiti che intendono presentare liste di candidati possono collegarsi tra loro in coalizioni; i partiti che si candidano a governare, inoltre, depositano il loro programma e indicano il nome del loro leader. Quanto alle modalità di votazione, l’elettore può esprimere un solo voto per la lista prescelta; non è inoltre previsto alcun voto di preferenza.
Tecnicamente è una legge proporzionale con il premio di maggioranza, garantisce cioè una governabilità certa almeno alla Camera, sommando però tre sistemi di elezione molto diversi tra loro: uno per la Camera dei deputati, un altro per il Senato della Repubblica, un altro ancora per gli italiani all’estero.
La legge, che è la pietra tombale al sistema elettorale maggioritario, voluto dagli elettori con un referendum nel 1993, contiene una clausola grazie alla quale, di fatto, tutti i partiti sono liberati dall’onere di raccogliere le firme, al contrario di quanto avveniva con la legge precedente; tutti tranne uno: la Rosa nel Pugno, la forza politica nata dall’unione tra Radicali e Socialisti. Questo nonostante lo Sdi, uno dei due soggetti costituenti, disponga di ben diciassette parlamentari nazionali e di quattro al Parlamento europeo e i radicali dispongano di due parlamentari europei;.
I Radicali e i Socialisti della Rosa nel Pugno sono così costretti a raccogliere 180mila firme in tutta Italia, e la raccolta di firme deve essere fatta sulle liste dei candidati; il che significa dover presentare i propri candidati quasi un mese prima rispetto agli altri partiti, per poter poi raccogliere le firme sulle liste chiuse. Una disparità, che pregiudica la stessa effettiva “legittimità del voto”. Gli avversari politici esentati dalla raccolta firme possono infatti definire le loro liste anche all’ultimo momento, e conoscere in anticipo chi sarà il candidato di quelle liste obbligate alla raccolta di sottoscrizioni; hanno così la possibilità di scegliere i candidati più appropriati da opporre nei diversi collegi.
Il Senato respinge tutti gli emendamenti migliorativi al decreto: quelli sulla raccolta delle firme per la presentazione del simbolo; e quelli che propongono di raccogliere le firme solo sul simbolo e non anche sui candidati. Camera e Senato inoltre respingono la mozione che chiede al Governo un nuovo decreto o, almeno, un’interpretazione autentica della norma sulle modalità di presentazione delle liste, per eliminare la discriminazione ai danni della Rosa nel Pugno. Il Governo si dichiara contrario a entrambe le richieste. La mozione è respinta con soli 11 voti di scarto.
15.4 Elezioni politiche 2006 – dall’applicazione all’interpretazione della legge: 8 senatori nominati al posto di quelli legittimamente eletti
Nel corso delle elezioni del 2006 per il rinnovo del Senato quattro uffici elettorali regionali - Piemonte, Lazio, Campania e Puglia - decidono di interpretare la legge elettorale applicando una inesistente soglia del 3%; alterando il risultato elettorale e nominando 8 senatori al posto di quelli legittimamente eletti.
Il ministro degli interni pro tempore Giuliano Amato, in Parlamento riferisce: “Il Ministero degli Interni…non ha emanato alcuna direttiva o istruzione o documento interpretativo della legge elettorale; ha semplicemente assolto ad un compito - che ha di fatto perché nessuna legge glielo attribuisce - che è quello della predisposizione del modello di verbale per gli uffici elettorali regionali che per tradizione viene fatto dal Ministero degli Interni così come, per tradizione, il Ministero degli Interni comunica oralmente i risultati delle elezioni accertati in via provvisoria e che provvisori rimangono perché poi i risultati veri delle elezioni sono quelli che vengono forniti dagli uffici regionali e, nel caso della Camera, dall’Ufficio Circoscrizionale Centrale. Ora, è vero peraltro che il modulo predisposto dal Ministero degli Interni era costruito in modo da presupporre l’interpretazione della legge elettorale alla quale Lei ha fatto riferimento e che Lei non condivide. Questa interpretazione del resto il Ministero l’ha enunciata in vario modo ma non attraverso una direttiva ed è un’interpretazione in base alla “ratio” complessiva della legge che l’ha portato a ritenere in via analogica applicabile anche al Senato il riferimento alle sole liste che avessero superato lo sbarramento anche nel caso di conseguimento del premio di maggioranza. Questi sono i fatti. Se vuole sapere la mia opinione, è anche possibile che se io fossi stato allora Ministro degli Interni avrei discusso con l’Amministrazione questa interpretazione perché personalmente tendo a ritenere che l’applicazione analogica in questa materia sia molto opinabile quando si risolva in limiti a diritti politici fondamentali e qui un limite all’elettorato passivo ha finito per essere imposto per interpretazione analogica in una situazione nella quale un emendamento noto del Senatore Mancino al Senato per specificarlo era stato respinto. Sappiamo che era stato respinto per evitare che la legge tornasse alla Camera, ma era stato respinto e questo sull’interpretazione pesa.”
La Giunta delle elezioni del Senato per tutta la durata della procedura si muove all’unanimità, ad eccezione del senatore Manzione, che il 5 luglio è nominato relatore per la Regione Piemonte.
L’11 ottobre, relazionando alla Giunta, Manzione propone di costituire un Comitato inquirente, incaricato di svolgere alcuni adempimenti istruttori. In sette sedute svoltesi tra novembre e dicembre 2006, tali adempimenti si sono articolati nelle audizioni dei professori Giuliano Vassalli, Fulco Lanchester, Mario Patrono, Massimo Luciani, Antonio Agosta e Stefano Ceccanti, nonché nell’audizione del presidente dell’Ufficio elettorale regionale del Piemonte, dottor Quaini, e del segretario responsabile, signora Ruscazio.
Il 6 dicembre la Giunta decide di procedere alla revisione totale delle schede nulle, bianche e contenenti voti nulli o contestati, di alcune circoscrizioni regionali riservandosi, nel caso si rivelino scostamenti significativi rispetto ai dati di proclamazione, di estendere la procedura di revisione delle schede anche alle altre regioni. Decisione presa in violazione del capo III del Regolamento per la verifica dei poteri secondo cui tutta l’attività istruttoria della Giunta è imperniata sulle proposte formulate per ciascuna regione dal relatore all’esito dell’esame da parte dello stesso di tutta la documentazione elettorale concernente la regione medesima.
Il 6 marzo 2007 la Giunta delle elezioni estende la revisione alle schede valide. Un ulteriore provvedimento per rinviare sine die la trattazione dei ricorsi, anche quando attengono ad una regione - il Piemonte - non inclusa nelle attività di revisione delle schede, già pronta per l’esame, il cui relatore ha già depositato le sue conclusioni.
Il 21 gennaio 2008, a oltre 18 mesi dalle elezioni, la Giunta del Senato convalida l’elezione del senatore nominato nella circoscrizione Piemonte, e il 26 febbraio dei nominati a senatori pronunciata dagli Uffici elettorali regionali di Lazio, Campania e Puglia.
Convalida contro la quale non è stato possibile ricorrere alla Cassazione - come accade per la Camera dei deputati - in quanto nella precedente legislatura questo diritto previsto dal regolamento della Giunta del Senato è stato cancellato dalla maggioranza parlamentare. La truffa si è consumata: otto senatori regolarmente eletti non vengono nominati. Al loro posto, altrettanti abusivi.
15.5 La Commissione di vigilanza Rai nella XV legislatura e il Centro d’Ascolto dell’informazione radiotelevisiva
Il 14 novembre 2006 la Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi approva all’unanimità una risoluzione che impone alla Rai di trasmettere alla Commissione periodicamente tutti i dati di monitoraggio politico, sociale e tematico relativo alle trasmissioni Rai nazionali, regionali, televisive e radiofoniche.
Il provvedimento intende colmare una lacuna storica: la Commissione parlamentare non è materialmente in grado di svolgere i suoi compiti istituzionali non avendo a disposizione i dati del monitoraggio televisivo Rai. La risoluzione tuttavia non ottiene alcuna concreta applicazione: perché vengono forniti solo dati parziali, con grave ritardo e discontinuità. Nonostante ciò l’Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) non adotta alcun provvedimento per assicurare l’ottemperanza alla delibera.
Nel frattempo non viene rinnovato il contratto tra Rai-tv e Centro di Ascolto dell’informazione radiotelevisiva radicale, che si vede costretto prima a ridurre la sua attività, e, nel luglio del 2008 a sospenderla.
Il Centro di Ascolto è la prima società italiana di monitoraggio televisivo; era già stato escluso dal servizio di fornitura in esclusiva all’Agcom dei dati del monitoraggio che aveva assicurato sin dall’inizio dei lavori dell’Autorità. Non sono così più disponibili i dati periodici del monitoraggio che solo il Centro di Ascolto forniva, mentre l’Agcom, assegnato il monitoraggio ad altra società tramite procedura di evidenza pubblica, li rende disponibili sul proprio sito con ritardi di mesi e mesi, rendendo così quasi impossibile l’esercizio dell’attività di denuncia dei soggetti interessati per violazione della par condicio.
Un rapido sguardo alla situazione chiarisce la funzione essenziale di controllo del Centro d’Ascolto, i dati raccolti “descrivono” la situazione di sostanziale e formale illegalità e la violazione della funzione di servizio pubblico (e, se si vuole, anche le ragioni che hanno portato alla sua morte).
Nel 2006, le tre testate dei telegiornali Rai, nelle loro edizioni principali, relegano gli esponenti della Rosa nel Pugno all’11° posto in termini di contatti raggiunti, dopo Forza Italia, Alleanza Nazionale, L’Unione, L’Ulivo, i Democratici di Sinistra, l’Udc, la Margherita, Rifondazione Comunista, Lega e Verdi, con 374 interventi in totale per 1h 49’ 39’’ in 157 giorni sui 365 dell’anno avendo potuto contare su 1.465 milioni di contatti, 160 milioni di contatti meno dei Verdi e la metà di quelli riservati a Rifondazione Comunista. Equità a parte, è stata violata anche una elementare regola giornalistica: la Rosa nel Pugno era l’unico, originale fenomeno politico di quella stagione. E’ stato completamente ignorato, sia nei servizi di cronaca che negli approfondimenti politici.
L’esponente della Rosa nel Pugno maggiormente intervistato dalle tre testate Rai nel loro complesso è Enrico Boselli, al 20° posto nella classifica per contatti raggiunti del tempo di parola degli esponenti politici. Gli interventi sono 149 per un totale di 42’08’’ distribuiti in 76 giorni su 364 e 570 milioni di contatti.
Ad Emma Bonino, al 45° posto, sono concessi 17’25’’ in 57 interventi (quasi tre volte in meno il tempo dedicato a Boselli) in 35 giorni su 364 dell’anno, potendo contattare meno della metà di spettatori di Enrico Boselli (260 milioni contro i 570). Marco Pannella, con 54 interventi, è al 47° posto avendo 233 milioni di contatti nei 20’24’’ di interventi in voce in 25 giorni dell’anno.
15.6 Il caso della Commissione di vigilanza sulla Rai nella XVI legislatura
Il Parlamento della XVI legislatura si insedia il 29 aprile 2008.
Il 4 giugno i Presidenti di Camera e Senato su indicazione dei gruppi parlamentari nominano i componenti della “Commissione parlamentare per l’indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi”.
Dalla settimana successiva, la Commissione è impedita a svolgere il suo lavoro per l’impossibilità di eleggere il suo presidente; le votazioni sono annullate per la sistematica assenza del numero legale: la maggioranza non concorda sull’indicazione del candidato indicato delle opposizioni, Leoluca Orlando; l’opposizione non è disposta a mutare candidato. Una situazione che si protrae per molti mesi.
L’insediamento della Commissione è un atto costituzionalmente obbligato. I Radicali, a partire dal 23 luglio, danno vita ad azioni nonviolente per chiedere che sia finalmente insediato l’Ufficio di presidenza della Commissione; contestualmente si chiede che finalmente sia eletto il giudice della Corte costituzionale mancante da oltre 15 mesi. L’aula della Commissione di vigilanza è occupata dai parlamentari radicali per nove giorni. L’azione viene sospesa quando i Presidenti di Senato e Camera si impegnano formalmente per convocazioni “finalizzate all’adempimento di obblighi costituzionali…ad oltranza” sino a voto utile.
A settembre si registra un nuovo impasse sempre sul nome del Presidente della Commissione, e senza che i Presidenti delle Camere mantengano l’impegno di convocazioni ad oltranza; per far cessare tutto ciò, Pannella inizia uno sciopero della fame e della sete, accompagnato dallo sciopero della fame di circa 250 fra dirigenti, militanti, parlamentari radicali e non. Inoltre per otto giorni i parlamentari radicali occupano un corridoio di Palazzo S. Macuto, sede della Vigilanza. Il 3 ottobre, il Presidente della Repubblica Napolitano, definisce l’elezione del giudice della Corte costituzionale da parte del Parlamento e l’insediamento della Commissione di vigilanza, “inderogabili doveri costituzionali da adempiere”. Ben 530 parlamentari sottoscrivono la richiesta di convocazioni ad oltranza sino all’espletamento degli obblighi costituzionali, e il 20 ottobre i parlamentari radicali occupano l’aula della Camera dei deputati.
Il 21 ottobre, con un ritardo di circa 18 mesi, viene eletto il giudice della Corte costituzionale; e il 13 novembre la sola maggioranza elegge presidente della Vigilanza il senatore del Pd Riccardo Villari. Qualche giorno dopo si completa l’Ufficio di presidenza, la Commissione è dunque finalmente insediata. Inizia così un’altra sconcertante vicenda che bloccherà ancora i lavori della Commissione: dopo appena due giorni dall’elezione di Villari, maggioranza e opposizione comunicano di aver raggiunto un accordo: affidare la presidenza della Commissione al senatore Sergio Zavoli, e chiedono a Villari di dimettersi; Villari rifiuta, non sussiste alcuno strumento giuridico per farlo dimettere. Solo i Radicali e il commissario del Movimento per l’Autonomia si oppongono a questa ulteriore illegalità. La Commissione, con la sola presenza dei membri di maggioranza e di quello radicale di opposizione, adotta con ritardo il regolamento della par condicio Rai per le elezioni amministrative in Abruzzo (soltanto 15 gg. prima del voto, oltre un mese e mezzo sulla data obbligatoria fissata dalla legge 28/2000), mentre non viene adottato alcun regolamento per le elezioni nelle Province autonome di Trento e Bolzano, perché la Commissione non viene insediata in tempo.
Il 4 dicembre Villari è espulso dal Pd. Il Presidente del Senato Schifani annuncia l’inizio di una inedita procedura di revoca di Villari da componente della Commissione, presso la Giunta del Regolamento del Senato, procedura la cui fondatezza è contestata dai più importanti costituzionalisti italiani.
Entro il 31 dicembre la Commissione deve approvare anche il regolamento per la par condicio per le elezioni regionali in Sardegna, adempimento disatteso quando a gennaio la presidenza dei gruppi parlamentari di maggioranza comunica l’intenzione di non partecipare più ai lavori della commissione sino alle dimissioni di Villari; manca così il numero legale.
Il 15 gennaio 2009 Pannella inizia uno sciopero della fame e della sete per chiedere che la Commissione di vigilanza possa infine funzionare ed adempiere agli atti obbligati ormai in ritardo da 10 mesi; contemporaneamente Marco Beltrandi torna ad occupare la sede della Commissione, e inizia uno sciopero della fame. La mattina del 16 gennaio Marco Pannella deposita una denuncia che ha ad oggetto la situazione in cui versa la Commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi, i cui lavori vengono preordinatamene disertati dai parlamentari (Beltrandi e Sardelli esclusi) al fine di costringere il presidente regolarmente eletto a dimettersi. Nella denuncia si ipotizzano alternativamente i reati di cui agli artt. 289 c.p. (attentato contro gli organi costituzionali dello Stato e contro le assemblee legislative) e 340 c.p. (interruzione di un pubblico ufficio o servizio). Il 19 gennaio maggioranza e opposizione, tranne il componente radicale e il Presidente Villari, si dimettono dalla Commissione, e il 21 gennaio, con una inaudita decisione dei presidenti di Senato e Camera, l’intera Commissione di vigilanza viene sciolta. L’obiettivo è estromettere il solo Villari dalla presidenza e dalla Commissione; tutti gli altri componenti, infatti, sono confermati. Si verifica così un fatto paradossale: il presidente che vuole far funzionare la Commissione è cacciato; chi, al contrario, ha la responsabilità di aver paralizzato i lavori della Commissione, è riconfermato.
Eletto Sergio Zavoli Presidente della Commissione, e nuovamente insediato l’Ufficio di presidenza, neppure a questo punto vengono messi all’ordine del giorno gli atti obbligati che non si compiono da molti mesi, con l’eccezione dell’approvazione del regolamento sulla par condicio per le elezioni sarde (che viene adottato solo 10 giorni prima del voto, a campagna televisiva già compromessa a vantaggio evidente di un solo candidato, con un ritardo di oltre un mese). Zavoli convoca la Commissione per la sola elezione dei membri del Cda Rai, peraltro impedendo ogni attività istruttoria o dibattito preventivo della Commissione. L’11 marzo l’Ufficio di presidenza della Commissione impegna la Commissione ad adempiere gli atti obbligati, anche a seguito dell’ennesima iniziativa nonviolenta dei radicali: tuttavia con vari pretesti le forze politiche, con la complicità attiva del presidente Zavoli, rinviano l’esame dei provvedimenti. Si arriva alla seduta dell’8 aprile, quando si constata che le tribune in periodo non elettorale non si possono più fare perché ai sensi della legge 28/2000 i termini sono scaduti. E’ così provato che le elites che controllano i due maggiori partiti italiani hanno fattivamente e continuativamente operato proprio per impedire il funzionamento della Commissione, con la complicità dei Presidenti delle Camere, e il silenzio del Presidente della Repubblica.