C'era una volta un carcere, la favola della "rieducazione"

Ha scritto Albert Camus che «la verità, come la luce, acceca. La menzogna, invece, è un bel crepuscolo che mette in valore tutti gli oggetti». Una sorta di tragico cono d'ombra, dove i fatti cambiano nome, i colori perdono tonalità e si sbiadiscono, dove il caldo diviene freddo e tutto inverte il proprio destino. E dove la vita diventa morte.
Esiste un luogo in Italia che è ormai un "non luogo". Perché spesso avulso da un contesto, perché è sempre più intriso di odio, rabbia e morte. Dove non si rieduca, ma si rischia di retrocedere nell'oblio. E non di un reato, o di un percorso sbagliato, ma l'oblio dal quale non si torna più: sono le carceri italiane con i tragici numeri che mettono solo brividi. Luoghi che in teoria dovrebbero essere adibiti alla rieducazione, ma che spesso né rieducano, né insegnano: spezzano purtroppo le vite.
Come i tre decessi nel carcere di Viterbo degli ultimi quaranta giorni: l'ultimo si chiamava Luigi Fallico, pare avvenuto senza segni di violenza, l'ipotesi più probabile è che sia stato vittima di un infarto. Il suo legale dice che nonostante avesse avvertito fortissimi dolori al petto, era stato prima visitato nell'infermeria del carcere di Viterbo, ma da lì, anziché trasferirlo in una struttura attrezzata, lo hanno riportato in cella. Senza dimenticare ad aprile il 30enne senegalese Dioune Sergigme Shoiibou. Nonostante prima dell'arresto fosse stato operato alla testa per eliminare un ematoma dal cervello, si trovava in cella anziché nel letto di un nosocomio. Nel trionfo del più assurdo dei casi di malagiustizia, o malasanità politica, la si chiami come si vuole. Tanto, il prodotto finale non cambia.
Riflessioni che trovano sfogo in pagine di volumi come "Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri", di Luigi Manconi e Valentina Calderone (il Saggiatore 2011), o "Leone Bianco, Leone Nero. La legge non è uguale per tutti", di Giuseppe Nicosia (LG Edizioni). Oppure nelle righe de "Vorrei dirti che non eri solo", di Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi, ripercorrendo quella notte di ottobre in quella sala dell'ospedale romano "Sandro Pertini". Non era solo Stefano, non lo era nemmeno in carcere, perché non si procurò quelle ferite mortali da solo, né in solitudine decise di andare incontro a ciò poi è accaduto. Con lui, oltre ai suoi carnefici, c'era anche chi avrebbe voluto aiutarlo. Quelle stesse persone, ovvero la sua famiglia, che oggi continuano a combattere per un pugno di verità. No, non era solo Stefano, come scrivono nel titolo del libro. Ma sono soli, spesso, quei detenuti che in quei luoghi vedono i propri diritti calpestati. Anche a causa di deficienze strutturali.
Sono quasi settanta i decessi dall'inizio del 2011 rilevati dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, di cui ventiquattro suicidi. Gli altri sono imputati a "cause naturali". Ma facendo un rapido calcolo anche con l'aiuto dei ritagli di cronaca nera sui quotidiani, ci si accorge presto che potrebbero essere molti di più. Nelle duecento carceri del paese ci sono 67.510 detenuti, a fronte di 45.543 posti. Un sovraffollamento che si ripercuote, ovviamente sulla missione educativa dell'istituto, sulla qualità della vita quotidiana che si riserva ai detenuti, sullo stato mentale e sulla psiche. Quest'anno si contano già 337 tentati suicidi, con quasi 2000 atti di autolesionismo senza contare le aggressioni che hanno comportato ben 1.389 ferimenti e 508 colluttazioni. In undici anni sono deceduti 1.800 detenuti, di cui un terzo per suicidio. Andando indietro agli anni novanta, più di mille suicidi si contano fino ad oggi, con quasi 16000 tentati suicidi ed una frequenza media di 150 casi ogni 10000 detenuti. Ma un altro dato, che dovrebbe smuovere maggiormente le coscienze e le penne dei mezzi di informazione, sta in quegli 87 agenti di polizia penitenziaria che dal 2000 ad oggi si sono tolti la vita: avvolti in un silenzio quantomai inquietante e per questo ancora più deprecabile.
Ma cosa accade nelle carceri? E soprattutto, come tramutarle in un qualcosa di più vivibile? Lo si può approfondire analiticamente nel volume di Alessandro De Rossi "L'universo della detenzione", dove l'autore, architetto e docente alla facoltà dì Ingegneria dell'Università dei Salento, riflette tecnicamente sui requisiti di funzionalità a cui il progettista di una struttura del genere deve attenersi. E li individua in sicurezza, igiene, vivibilità, chiedendosi cosa significhi oggi un termine come "benessere" all'interno di un carcere. Rilevando come si potrebbe richiamare "tutto ciò che non comporti il suo contrario, cioè l'inquietudine, il turbamento, la depressione, il dolore, il desiderio di autoannientamento". E fa riferimento al fatto che, al di là delle misure minime riscontrabili nella normativa, un sicuro motivo di interesse per il progettista che si occupa dello studio delle funzioni all'interno di un penitenziario, «è dato dalla individuazione del limite sottile e dall'accertamento di quella soglia minima che divide un non meglio definibile benessere da un sicuro, accertabile e obiettivo malessere all'interno dei ristretti spazi del carcere». Un intervento insomma che recuperi l'anima del detenuto, lo preservi dai rischi del disagio, della disperazione, dell'abbandono. Con il sostegno fondamentale di un apposito intervento legislativo, che curi in primo luogo la riabilitazione.
Ma la protesta ha anche il volto di chi si priva di acqua e cibo per esternare il proprio disagio. Come i detenuti della casa circondariale di Lanciano che hanno iniziato lo sciopero della fame in solidarietà con quello che sta portando avanti Marco Pannella per "ridare dignità ai detenuti italiani". Una realtà dove il sovraffollamento è ormai routine e non più emergenza, all'insegna di quella logica dell'abitudine che tramuta in quotidiana oggettività un dato che, invece, presenta caratteri di straordinarietà. L'esempio di Lanciano è indicativo: dove dovrebbero vivere 150 persone ce ne sono 380, in una cella che può contenere un detenuto ce ne sono tre, con la terza branda posizionata a tre metri di altezza e a trenta centimetri dal soffitto. Per non parlare di protezioni e garanzie di sicurezza. E con l'assistenza medica che si interrompe alle ore 22. Mentre il personale di polizia non ne può più di doppi e tripli turni. Rivendicazioni che, però, non vengono ascoltate da chi dovrebbe farlo, da una classe dirigente che si occupa di altro. Perché la parola, come scrisse De Montaigne, «è per metà di colui che parla, per metà di colui che ascolta».
E allora vero baluardo del paese, è quella Costituzione troppo spesso offesa e bistrattata: che ancora una volta offre la risposta al quesito, e all'articolo tredici spiega che è punita la violenza commessa sulle persone che sono private della libertà. Basta leggerlo. E applicarlo. A tutti.
© 2011 Il Futurista. Tutti i diritti riservati
SU