La vita come un’arma Lo sciopero della fame

Ho intrapreso uno sciopero della fame dal 14 gennaio, per unirmi alla battaglia non violenta di Marco Pannella e di decine di compagni radicali a sostegno di una indifferibile amnistia. Sembra un disco rotto che ripete sempre lo stesso requiem, e non posso augurarmi che la nostra ennesima iniziativa desti clamori da prima pagina, soprattutto in un Paese e con un Parlamento che lasciano disatteso persino il messaggio alle Camere del presidente della Repubblica, il quale, con un gesto rarissimo ed estremo nella Storia italiana, ha richiamato l’attenzione sul disastroso sistema giudiziario e penitenziario di casa nostra. Infatti, è proprio per aiutare Napolitano, trattato e inascoltato come un radicale qualunque, che la nostra azione questa volta è ripartita.
E forse sarà di nuovo inutile, in uno Stato che si fa beffe persino di mamma Europa, che sui «trattamenti inumani e degradanti» delle carceri ha lanciato un ultimatum all’Italia che scadrà a maggio: non si può certo sperare che un «satyagraha», anche se fosse il primo, faccia alcuna notizia! Eppure so che andrò avanti, come gli altri compagni radicali, pur nel silenzio catacombale, innanzitutto affinché la mia umanità e la mia civiltà restino sveglie, mentre tutt’intorno una narcolessia etica sembra avviluppare il Belpaese e le sue istituzioni.
Paolo Izzo
pizzos3@gmail.com
Caro Izzo, Spero che lei non intenda spingersi sino a mettere in pericolo la sua vita. Ma nello sciopero della fame, se fatto con serietà, la posta in gioco non può che essere la vita. Sappiamo che Marco Pannella e i radicali hanno sempre presentato questi scioperi come manifestazioni non violente e hanno frequentemente rivendicato l’eredità di Gandhi (a cui anche lei si richiama servendosi dell’espressione usata dal Mahatma e dai suoi seguaci). Ma i radicali sembrano avere dimenticato che nelle mani di Gandhi questo sciopero fu in realtà un’arma di guerra. Contro un nemico che rifiutava di dare all’India la sua indipendenza e disponeva di una irraggiungibile superiorità militare, Gandhi metteva in campo il proprio corpo. Quella di Gandhi, quindi, fu una guerra asimmetrica di liberazione.
Credo che i radicali siano troppo liberali per proporsi di trasformare la politica interna in un campo di battaglia, ma così accade di fatto quando un militante politico minaccia di usare il proprio corpo come un’arma letale e si dichiara pronto a morire pur di raggiungere il suo scopo. Se la politica democratica è lotta fra idee e interessi senza spargimento di sangue, questa, spiace dirlo, non è più democrazia. Il digiuno non è terrorismo suicida perché non minaccia altre vite, ma anche nel digiuno vi è potenzialmente, come nel terrorismo suicida, il martire, vale a dire un personaggio che non può e non deve appartenere alla logica del conflitto democratico. Naturalmente vi sono molti casi in cui il digiuno dimostra di essere, alla fine, soltanto un artificio retorico per mobilitare compassione e consenso. Ma in questo caso il governo, se può reagire con argomenti convincenti, ha il diritto e il dovere di accettare la sfida e di mantenere la propria posizione sino a quando lo scioperante decide d’interrompere la sua manifestazione.
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