La vergogna delle prigioni lager

Dalla Rassegna stampa

È una tortura, ma non si chiama così. Dovrebbe rieducare, invece è diseducativa, per usare un eufemismo. Il suo scopo ultimo, oltre che di difesa sociale, sarebbe quello di restituire alla società un cittadino «riabilitato». Al contrario, chi vive questa esperienza ne emerge più socialmente pericoloso di prima. È la detenzione in carceri sovraffollati, dove i galeotti sono stipati in celle strapiene e la tensione provoca periodicamente risse, ferimenti, atti di autolesionismo, suicidi, ribellioni. «Il Tempo» ha scovato i dati segreti di un fenomeno che è costato al nostro Paese l’ultimatum della Corte europea dei diritti dell’uomo: l’Italia ha un anno di tempo per risolvere il problema e, in base alla sentenza dei giudici di Strasburgo, dovrà anche introdurre una procedura per risarcire i detenuti.

E veniamo ai numeri della vergogna. Al 31 luglio 2013, nei 206 istituti di pena dello Stivale c’erano la bellezza di 64.873 persone. Per il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) Giovanni Tamburino, che ha riferito sulla drammatica situazione in Senato, a metà settembre i detenuti erano più di 65 mila. La capienza, però, è soltanto di 47.459 posti. La differenza è, quindi, di 17.414 unità, quasi un quarto del totale oltre le possibilità di accoglienza dei nostri penitenziari. In testa alla claustrofobica classifica del pigia pigia c’è il Veneto, con più di tremila carcerati su meno di duemila posti. Seguono a ruota Puglia, Lombardia, Campania. Nel Lazio il rapporto è di 4.834 a 7.175, cioè 2.341 in eccesso rispetto alle possibilità di accoglienza. In Abruzzo siamo a 1.534 contro 2.047 (513 eccedenti) e, in Molise 391 a 505 (+114). Nelle tabelle che pubblichiamo qui accanto potete verificare la disastrosa situazione in tutta Italia e, carcere per carcere, in due regioni in particolare, Lazio e Abruzzo. Per risolvere questo dramma vissuto quotidianamente sulla pelle da decine di migliaia di persone, che devono sì scontare la pena ma non in modo inumano, non servono provvedimenti d’emergenza come l’indulto. E non basta costruire nuovi edifici se l’edilizia carceraria non viene accompagnata da una politica penitenziaria adeguata. Lo stesso direttore Tamburino ha fornito in Parlamento i dati sull’efficacia dell’indulto applicato nel giugno 2006. Cifre non confortanti. Quel mese dietro le sbarre c’erano 61.264 persone che, a dicembre, scesero di 22.000 unità, portando il numero complessivo a 39.005. Ma l’effetto fu di breve durata. Quattro anni più tardi, cioè nel giugno del 2010, i detenuti erano 68.258. E dopo altri sei mesi, 69 mila.

Quali sono le cause del fenomeno? Il sovraffollamento nasce nelle aule di tribunale. Il ricorso troppo frequente alla custodia cautelare (oggetto di uno dei referendum dei radicali) e la lunghezza dei processi che sono alla sua origine, rappresentano indirettamente una grave violazione della Carta Costituzionale. Chi è soggetto a restrizioni della libertà quando ancora non è stato giudicato, infatti, è costretto a espiare una pena anticipata e mai comminata (la metà dei detenuti sono in attesa di giudizio). Non di rado il giudice che accoglie le richieste di custodia in cella del pubblico ministero di turno lo fa in base a uno dei tre «pericoli» previsti dal codice: la reiterazione del reato. Ma se il rischio di fuga (se si hanno conti e amicizie o disponibilità di case all’estero, ad esempio) e quello di inquinamento delle prove (si può stabilire se il soggetto ha questo potere in base alla sua posizione nella società) sono in qualche modo accertabili, la probabilità di reiterazione è impossibile da dimostrare ed è a completa discrezionalità del giudice. Senza calcolare che nel nostro Belpaese il ricorso a misure alternative al carcere è minimo e che molti dei detenuti sono stranieri e potrebbero essere espulsi per scontare la pena in Patria. Oppure sono tossicodipendenti e potrebbero essere trasferiti in una comunità di recupero sotto il controllo della polizia penitenziaria. Ma anche quello degli agenti è un problema che influisce negativamente. Per il Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, all’appello mancano 7.000 unità e il turn over è fermo da tempo. Il risultato è devastante. Per i carcerati e per l’intera società, che paga il prezzo del sovraffollamento in termini economici e di escalation criminale. A tal proposito qualcuno dovrebbe ricordare le parole di Cesare Beccaria: «Il fine delle pene non è di tormentare e affliggere» e il processo «deve essere finito nel più breve tempo possibile. Qual più crudele contrasto che l’indolenza del giudice e le angosce d’un reo?». Era la metà del ‘700. E l’auspicio di Beccaria non si è ancora realizzato.

 

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