Il Veneto? Un errore colpevolizzarlo

Dalla Rassegna stampa

«Le idee non si arrestano», intima il cartello portato da un paio di ex alpini con la bandiera di San Marco legata al collo. I due vecchiotti non lo sanno, ma è uno degli slogan usati dopo Il 7 aprile 1979 dalle migliaia di autonomi, con il passamontagna calato sul volto e le spranghe in pugno, che assediarono Padova chiedendo la libertà per Negri, Scalzone, Ferrari Bravo, Vesce e un gruppo di altri intellettuali del disciolto Potere Operaio, finiti in cella con l’accusa di essere membri della direzione strategica delle Br e le menti del sequestro e del delitto di Aldo Moro. Trentacinque anni più tardi, la scena si sposta a Verona e ancora una volta la gente trova sotto casa le forze dell’ordine schierate a far fronte a una folla di manifestanti giunti in città per protestare contro l’arresto di una cupola di «cospiratori», cui si contesta di stare preparando una nuova, imminente stagione di terrore eversivo, in nome di una Serenissima Repubblica defunta più di due secoli fa. Ma stavolta non c’è bisogno che gli agenti e i carabinieri in assetto da combattimento indossino i caschi e alzino i manganelli: coloro che riempiono piazza dei Signori sembrano, e per lo più sono, famiglie con i figli nel passeggino, e magari qualche cane al seguito.

Con l’aria di chi si concede una gita di primavera. O, visto che qualcuno si trascina dietro un grosso Tanko di plastica pronto a sparare pagnotte, con la voglia di sberleffo di chi partecipa a una sfilata di carnevale. Due fotografie di cronaca, due diversi teoremi giudiziari - il primo fu smontato dai processi, il secondo chissà quale fine farà - e la stessa sgradevole sensazione diffusa, nel Veneto. Dove, oggi più che mai, dà fastidio l’idea di passare in blocco come vittime di un eterno e ricorrente malessere, pronti in cuor proprio a giustificare chi si rifugia in «bislacche nostalgie e approssimazioni mitologiche» (così disse Andrea Zanzotto a proposito del commando che assaltò il campanile nel 1997) e, in quanto tali, esposti a ogni riprovazione nazionale. Insomma, un popolo fino a un po’ di tempo fa tenuto ai margini e quasi disprezzato perché povero, culturalmente indigente e politicamente gregario sotto le bandiere di Dc e Lega, e poi detestato perché ricco, egoista e senza etica, oggi teme d’essere criminalizzato perché si mostra troppo tiepido, se non proprio solidale, con chi avrebbe attivato un «laboratorio» nel quale si lavorava a materializzare un altro incubo italiano: la secessione del Nordest.

Sui «patrioti» chiusi in cella alcuni giorni fa incombono accuse gravi, che potrebbero costare loro fino a 15 anni: pene che in Italia spesso non vengono inflitte neanche ad assassini colti in flagrante. Ed è un fatto che molti, tra quanti hanno studiato le carte della Procura di Brescia, esprimano sbalordimento e incredulità per le ipotesi di reato che vi sono configurate. Ora, non sappiamo se il vero torto degli arrestati è solo di aver scherzato col fuoco. O di aver peccato d’ingenuità inseguendo fantasmi e calpestando il buonsenso, come quei manifestanti che ieri hanno fatto salire sul palco veronese perfino dei bambini. Di sicuro, come confidava compiaciuto un fedelissimo di Tosi, «l’inchiesta ha ottenuto l’effetto di resuscitare un cadavere: il venetismo. E con esso di riaccendere l’ansia di veder rinascere dovunque qualsiasi altra patria perduta...». Un esito perverso ma oggettivo. Che si riflette nella pretesa leghista di chiedere al più presto un referendum per l’indipendenza del Veneto, sul modello di quelle consultazioni popolari che si terranno a settembre in Scozia o, a novembre, in Catalogna. Perché da noi dovrebbe essere un tabù, ripetono - adesso con più fiato - i vari Salvini e Borghezio, dato che l’Europa riconosce il diritto all’autodeterminazione dei popoli? Semplicemente perché la nostra Magna Charta esclude in linea di principio una simile possibilità.

A meno che la strada non sia aperta da una legge costituzionale che il Parlamento italiano non voterà mai. Ecco quindi che la vicenda degli ultimi «serenissimi» va riletta in un’altra chiave, se si vuole evitare che offra nuove occasioni di frustrazione e vittimismo. La ricorrente domanda «chi secede da chi, se già si ha il senso che quasi non esista più l’Italia?» imporrebbe di inserire questo episodio tra i dossier in cui si raccolgono i tanti segnali di slogatura tra i cittadini e lo Stato, per cercare di decifrarli e ricomporli. Del resto, come raccomandava Indro Montanelli parlando di Umberto Bossi, quando il leader della Lega era ancora in versione barbarica e rivoluzionaria, «visto che non possiamo mettergli le manette, non ci resta che invitarlo a cena e parlargli. Ci piaccia o non ci piaccia».

 

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