Una paralisi inspiegabile

Dalla Rassegna stampa

L'approvazione al Senato del secondo decreto-sviluppo del Governo non cambia la prospettiva, e non solo perché il testo, per l'approvazione definitiva, dovrà passare di nuovo alla Camera. Se è vero che la crescita non si fa per decreto, dal provvedimento licenziato ieri da Palazzo Madama è infatti altrettanto ragionevole attendersi un impatto limitatissimo. Tendente allo zero.

A un anno dal decreto "Salva-Italia" (quello sì a forte impatto positivo) e nel pieno di una crisi recessiva che al di là dei numeri affonda i suoi denti affilati nel tessuto connettivo della fiducia di cittadini e imprese, questo passaggio parlamentare mette a nudo due punti.
La fragilità, alla lunga, di uno schema (di fatto a due tempi, prima il rigore poi la crescita) fondato sul risanamento delle finanze pubbliche a quasi esclusiva trazione fiscale e non sostenuto da un'altrettanta aggressiva azione sulla spesa pubblica. E il progressivo sfilacciamento di un quadro politico che, a fronte della caduta dello spread (ieri peraltro risalito a 310 punti), si traduce in Parlamento in uno "stop and go" senza bussola. Tipico della stagione pre-elettorale, dove ci si sente più liberi di fare o disfare con l'occhio rivolto solo alla conquista dei consensi.

Un simile mix ha finito per partorire questa condizione generale di stallo di cui il secondo decreto-sviluppo è specchio fedele. Non che sia una scatola del tutto vuota (solo per fare due esempi: 150 milioni stanziati per il Centro-Nord sulla banda larga per ridurre il divario digitale, il nuovo quadro normativo per il ciclo di vita della "start up", l'impresa innovativa) ma certo non può non impressionare la caduta pressoché definitiva, sotto i colpi della Ragioneria dello stato e delle dissonanze ministeriali, degli sgravi fiscali sulle nuove infrastrutture agevolabili con il credito d'imposta. Come dire: zero spinta su opere che potevano contribuire a riavviare la crescita.
Una caduta degli sgravi fiscali cui fa invece fronte la proroga di cinque anni per le concessioni balneari, sulla quale il Governo ha finito per cedere nonostante la stessa Ragioneria abbia avvertito che l'Italia rischia in sede europea multe comprese tra i 10mila e i 650mila euro al giorno. In questo caso, il rigore europeista e l'apertura al mercato sembrano stati, per l'appunto, spiaggiati.

Se agli ultimi passi del decreto-sviluppo – che assomiglia ad una legge-quadro più che a un complesso di norme operative subito – aggiungiamo poi le incognite sul cammino della delega fiscale e della stessa legge di stabilità (sempre al Senato ci sarà una seconda lettura "a saldi invariati" ma con una forte ricomposizione qualitativa della manovra) si capisce bene quanto in questo gigantesco ingorgo normativo e parlamentare sia difficile orientarsi per il meglio. Dove il meglio consisterebbe in un tragitto rapido (sono poche le settimane disponibili) e blindato sul piano dei conti pubblici ma non su quello della crescita, che dovrebbe al contrario esplodere con l'innesco di misure utili. Ma non ci sono i soldi, si dice, e si ricomincia daccapo. Ferma però restando l'insostenibile pressione fiscale, l'altissimo debito pubblico e la conclamata difficoltà ad aggredire il fronte della spesa pubblica per le resistenze corporative e la riluttanza della politica a cambiare passo sulle riforme.

Questa fragilità di fondo e di prospettiva non potrà peraltro passare inosservata agli occhi, sempre temibili, dei mercati. Il premier Mario Monti ha appena detto che un obiettivo che gli sta particolarmente a cuore è riportare lo spread tra titoli italiani e tedeschi a quota 287 punti, la metà dei 574 raggiunti dall'Italia al momento in cui prendeva la guida del Governo. Obiettivo giusto perché testimonierebbe il continuo recupero del Paese ma non tale, anche se raggiunto negli auspicabili tempi più rapidi, da metterci al riparo dai costi onerosissimi derivanti dalla mancata crescita. Costi cui i mercati restano molto sensibili.

 

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