Una "condanna" per le nostre carceri

Dopo più di venti anni due registi italiani, i fratelli Taviani, hanno vinto un Orso d'oro alla sessantaduesima Berlinale parlando della terribile condizione delle carceri, e segnatamente dei detenuti in 41 bis, attraverso l'espediente narrativo di rappresentare tutto il backstage di una tragedia di Shakespeare, il "Giulio Cesare", effettivamente allestita a Rebibbia dai detenuti sottoposti a quel regime come ex appartenenti a clan di mafia, camorra e ndrangheta o altre bande della criminalità organizzata.
Il film è effettivamente bello e commovente soprattutto perché i detenuti, che all'inizio della pellicola si presentano con la propria fedina penale, prima in un'espressione dolce poi in una carica e molto dura, se non rabbiosa, usano la recitazione per lanciare il proprio urlo di disperazione e di libertà agognata. Durante la proiezione riservata alla stampa stampa al Festival di Berlino, applausi e lacrime si sono mischiati durante i titoli di coda. Sia gli spettatori, sia i registi e gli attori (Cosimo Rega, Salvatore Striano, Giovanni Arcuri, Antonio Frasca, Juan Dario Bonetti, Vittorio Parrella, Rosario Majorana, Vincenzo Gallo, Francesco De Masi, Gennaro Solito, Francesco Carusone, Fabio Rizzuto, Maurilio Giaffreda) sapevano benissimo di interpretare sé stessi attraverso Shakespeare, grazie alla regia di Paolo e Vittorio Taviani. Nell'elenco ci sono due "estranei", per così dire, al circuito infernale del 41 bis: uno è l'ex detenuto per camorra Salvatore "Zazà" Striano, condannato a 14 anni e sei mesi per traffico di droga, oggi libero e attore a tempo pieno, l'altro è Maurilio Giaffreda che in carcere ci sta ma come educatore teatrale.
Bello, come si diceva, l'identikit iniziale dei personaggi che ricorda, mutatis mutandis, lo stesso tipo di introduzione ai personaggi usati in rock operas come "Jesus Christ Superstar". Lo hanno spiegato agli stessi registi i responsabili del teatro dei detenuti di Rebibbia: "Per quanto riguarda le audizioni, da alcuni anni abbiamo adottato un metodo semplice ma estremamente efficace: chiediamo agli attori di identificare se stessi, come se fossero interrogati dalla polizia, poi chiediamo loro di dire addio a qualcuno che amano, dicendo loro che la prima volta devono mostrare il dolore e la seconda volta la rabbia. In questo caso, abbiamo avuto una sorta di pre-casting con Fabio Cavalli, che è il direttore artistico a Rebibbia".
Hanno spiegato a loro volta i Taviani che "questi detenuti-attori hanno dato se stessi per realizzare il film" e che quindi "a loro va il nostro pensiero, mentre noi siamo qui tra le luci, loro sono nella solitudine delle loro celle. E quindi dico grazie a Cosimo, Salvatore, Giovanni, Antonio, Francesco e Fabione. Anche un detenuto, su cui sovrasta una terribile pena, resta un uomo, grazie alle parole sublimi di Shakespeare; ci fa piacere vincere un premio in un festival come questo, che non ha un indirizzo generico, ma che al contrario ha un carattere molto specifico: cerca forze nuove e cerca forze che si appassionano a tematiche sociali".
Per una di quelle terribili coincidenze del fato, la notizia dell'Orso d'oro per "Casere deve morire" arrivava nei giorni più tremendi per i detenuti italiani: una settimana costellata da suicidi di detenuti e di guardie di custodia.
Come ha spiegato il sindacalista Eugenio Sarno della Uil penitenziari in uno dei tanti comunicati che è costretto a stilare per fare la conta dei morti nelle patrie galere, "troppo spesso le nostre segnalazioni non trovano alcun riscontro. Questa insensibilità logora ed alimenta la rabbia e la frustrazione del personale". Risultato? "Due suicidi di nostri colleghi, in meno di 48 ore (Formia e Sessa Aurunca)". Ma il bilancio della settimana horribilis comprende anche altri morti in cella. Spiega Sarno infatti che "in questi ultimi giorni due detenuti, a Milano Opera e Cremona, hanno deciso di evadere per sempre dalla vita. Sono, quindi, otto i suicidi dall'inizio del 2012. Per non parlare delle due vite salvate dai baschi blu da tentati suicidi (Enna e Genova Marassi) che portano a circa trenta il numero dei detenuti strappati a morte certa dal primo gennaio ad oggi".
Ma se il cinema italiano con i fratelli Taviani, e le giurie di Berlino con le loro coraggiose scelte, hanno deciso di mettere la condizione carceraria italiana ed europea al primo posto dell'immaginario collettivo, non così può dirsi per la politica italiana. Che con la sola eccezione dei radicali italiani di Marco Pannella e Rita Bernardini, non ha il coraggio di pronunciare quell'unica parola, "amnistia", che rappresenterebbe la conditio sine qua non per ogni seria riforma della giustizia penale. Se in aula durante il dibattito sul cosiddetto "svuota carceri" si sono sentite le demagogiche impostazioni di chi ha fatto ostruzionismo, Lega Nord e Italia dei Valori, quelle motivazioni che la Bernardini ha definito 'ripugnanti" alla buona fede e all'onestà intellettuale della gente (e chi ha accesa Radio Radicale tutto il giorno ha potuto farsi una propria idea in proposito), in tv domenica da Lucia Annunziata anche la ministra Paola Severino sembrava più sensibile alle lacrime di coccodrillo di Di Pietro, per la ostentata malinconia dei bei tempi di "mani pulite" , che a quelle di disperazione dei detenuti. Per non parlare della conduttrice che non ha fatto una domanda che è una in quella "mezz'ora" sulla situazione carceraria italiana.
A pensarci bene e a dirla tutta, questo Orso d'Oro per i fratelli Taviani potrebbe (fatto salvo il riconoscimento artistico) assumere lo stesso significato di una delle centinaia di condanne che la Corte europea dei diritti dell'uomo infligge al nostro paese proprio per come tratta i carcerati.
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