Un segnale di riscossa

Dalla Rassegna stampa

Dieci cartelle che valgono 200 milioni a pagina; rompono il muro di impotenza e di rassegnazione rispetto alla recessione globale; danno a lavoratori e imprese strumenti nuovi per reagire al declino.
Se mai ci fosse stato bisogno di prove concrete della necessità di un accordo di sistema sulla produttività in Italia, le ha fornite la cronaca proprio ieri, come implacabile "post" per i rappresentanti di imprese, sindacati e Governo impegnati nella riunione finale a Palazzo Chigi. Sono i dati contenuti nei due grafici pubblicati qui a fianco. L'Italia non genera produttività da 20 anni, ma è il Paese dove il peso del fisco sulle imprese è da record mondiale, al 68%.
Come può crescere un Paese così zavorrato? Come può rilanciare quella domanda incagliata sotto zero, simbolo di un Paese sfiduciato e preda del timore del futuro? Il patto sulla produttività è un primo segnale di fiducia e di riscossa rispetto alla congiuntura e allo sguardo corto che ha impedito, per problemi di interpretazioni cristallizzate dall'ideologia, di affrontare il tema per troppo tempo. I luoghi di lavoro, finalmente, dopo un travagliato percorso di accordi interconfederali durato almeno vent'anni, trovano quella dignità contrattuale che meritano da sempre senza togliere l'importante ruolo di cornice al contratto nazionale. Come ha spiegato Mario Monti la produttività oggi è il problema (da gestire sui luoghi di lavoro) come lo era, prima dell'ingresso nell'euro, l'inflazione (da gestire a livello nazionale). E l'intesa di ieri assume respiro e dignità pari a quelle raggiunte nella stagione della concertazione del '92-93.

Ora sarà importante che questa possibilità di alzare i salari sia realmente legata a fasi di innovazione e di collegamento tra retribuzioni e risultati d'impresa centrati su innovazione tecnologica, di prodotto e di processo e su moduli di formazione e arricchimento professionale. Un altro dato, l'e-Intensity index - pubblicato proprio ieri - dimostra quanto ciò sia cruciale se è vero che l'Italia è ferma a meno della metà nella classifica mondiale nel superamento del cosiddetto digital divide. L'intesa diventa quindi un modo, neanche troppo indiretto, per tentare di risalire la china che ha visto l'Italia in arretramento – in termini medi – proprio rispetto all'investimento in innovazione, componente essenziale della stessa produttività di sistema.
Un segno di attenzione dunque a quella rotta che dovrà puntare sempre di più su temi strategici che - come ha scritto Alberto Quadrio Curzio martedì - potrebbero aumentare di molto il potenziale di crescita del nostro Paese a cominciare dalle infrastrutture (investire farebbe aumentare del 12% il Pil in 10 anni) e dalla formazione (due anni aggiuntivi di istruzione darebbero una crescita di quasi mezzo punto in più all'anno per 50 anni).

È una firma lungimirante perché sblocca più di 2,1 miliardi di risorse da destinare alla defiscalizzazione del salario accessorio messe in campo dallo sforzo del Parlamento sulla legge di stabilità. In sostanza, un modo concreto per aumentare i salari reali, anche se i detrattori parlano di tagli alle buste paga omettendo – strumentalmente – di citare lo sconto fiscale (pari al 10% contro un'aliquota media di almeno il 30% in caso di salario ordinario). Con questa dote si aumentano le retribuzioni e si aumenta la competitività del Paese, unico vero modo per far crescere (o salvare) anche l'occupazione. Scegliere la strada di una detassazione delle tredicesime – come ha chiesto Susanna Camusso al premier – avrebbe invece, ancora una volta, lo sguardo corto su una fiammata di presunti consumi senza aumentare il grado di produttività di sistema e, anzi, peggiorando la situazione della finanza pubblica.
L'accordo resta in una cornice di grande concretezza ed è stato strumentale invocare, come ha fatto la Cgil, la contropartite di nuove regole sulla rappresentanza e la riparazione del presunto "vulnus" sul contratto dei metalmeccanici. Una posizione che ha vanificato gli forzi di chi, con grande convinzione, ha tentato fino all'ultimo di consentirle di firmare il testo. Capziosità lontane da un'intesa pragmatica che, invece, si preoccupa di prendere atto delle nuove tendenze già emerse spontaneamente dalla contrattazione di secondo livello: ci sono sperimentazioni di welfare aziendale molto rilevanti e molto apprezzate dai lavoratori, si sono raggiunte intese molto innovative in tema di flessibilità e di cambio di mansioni, così come nella gestione della staffetta generazionale tra nuovi assunti e personale senior destinato a uscite graduali dall'impresa e con funzioni di tutor per le nuove leve. Temi che sui luoghi di lavoro si conoscono (e si vivono) assai meglio che non nelle tavole rotonde o nei tavoli di riunione di chi guarda a quei testi con gli occhiali della rappresentanza "politica" e dell'approccio pregiudiziale. Chi oggi poi grida allo scandalo del demansionamento dimentica gli illustri precedenti tedeschi: quando doveva gestire la fase acuta della crisi, con assai maggiore lungimiranza, fu proprio il sindacato tedesco a concordare, in divese grandi imprese, forme di cambio di mansioni e di riduzione del salario pur di salvare l'occupazione e la competitività delle produzioni. Oggi chi ha battuto quella strada si gode i ricchi bonus della nuova stagione del rilancio. Ma non ha mai fatto l'errore di guardare solo il proprio ombelico.

 

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