La tregua fiscale e il calcolo (effettivo) dei benefici

Dalla Rassegna stampa

Per dirimere la querelle tra i sostenitori del taglio dell’Irpef e i promotori del taglio dell’Irap il senatore e giuslavorista Pietro Ichino ha provato a vestire per un giorno i panni di Re Salomone. Ha proposto di applicare il provvedimento «su di una zona limitata e statisticamente simile in modo da misurare con precisione come e quanto le imprese e i lavoratori reagiscono a una forte riduzione dell’imposizione sulle imprese stesse, e/o sui redditi da lavoro». Come si fa per testare gli effetti dei farmaci, ha aggiunto. Il guaio della proposta è che comporterebbe un lungo ritardo nelle scelte definitive e quindi minerebbe in partenza l’intento di dare ossigeno ai consumi o al rilancio dell’occupazione. Ma metodo Ichino a parte siamo proprio sicuri che gli effetti di trasmissione dei benefici, nell’uno o nell’altro caso (taglio Irpef o Irap), sarebbero immediati o comunque certi?

Cominciamo dal lato imprese. Alcuni economisti (contrari) sostengono che ad avvantaggiarsi di un taglio del costo del lavoro sarebbero in primo luogo le aziende che esportano, quelle che già hanno mercato da soddisfare. Aumenterebbe la loro competitività ma non è affatto detto che tutto ciò si tradurrebbe in nuova occupazione. Le aziende potrebbero utilizzare meglio la manodopera che già hanno, riassorbendo quote di cassa integrazione o chiamando agli straordinari. Non è detto quindi che l’ampliamento della produzione porti in dote più posti di lavoro. A meno che non si ricorra a una misura selettiva: concentrare tutto il taglio dell’Irap su nuove assunzioni. Chi difende «la via dell’Irap» (o comunque dell’intervento sul costo del lavoro) sostiene che le aziende avrebbero la possibilità di riprendere a investire dopo tanto tempo, magari ammodernando i macchinari e favorendo quelle tecnologie che non tagliano lavoro anzi lo incrementano. Un’altra strategia che le imprese potrebbero implementare è intervenire, riducendolo, sul prezzo delle merci vendute sul mercato interno. In questo modo importeremmo meno.

È chiaro che stiamo parlando in ogni caso di un taglio dell’Irap veramente significativo, almeno sopra i 5 miliardi altrimenti tutti i discorsi fin qui fatti si sbriciolano. Sono in molti tra gli addetti ai lavori a sostenere che la trasmissione degli effetti del taglio dell’Irpef (più soldi in busta paga) appare più immediata. Stiamo parlando di una cifra che può variare dagli 80 ai 100 euro mensili, che potrebbe essere cumulata anche trimestralmente per sottolinearne la corposità. C’è il rischio concreto, infatti, che il beneficio salariale non venga adeguatamente percepito e quindi non dia seguito al cambio di umore necessario per poi procedere agli acquisti. Se il taglio dell’Irpef si concentra sui redditi attorno ai 1.500 euro netti al mese è difficile che quei soldi prendano la via del risparmio. Secondo diversi osservatori è prevedibile che vadano a sostenere i consumi di cibo, abbigliamento, elettrodomestici e prodotti del sistema casa. Più arduo che possano aiutare le vendite di moto e di auto. Se, come chiede la Cgil per mettere fuori gioco i lavoratori autonomi, la riduzione delle tasse avvenisse via detrazioni il rischio è di sminuire l’effetto-annuncio perché il beneficio verrebbe riscontrato solo a fine anno. A meno che non si lavori sugli assegni peri figli con una misura che assomiglierebbe molto da vicino a un «coefficiente famiglia». Tra tante opinioni non manca quella degli iper-scettici il cui ragionamento suona così: se i tagli dell’Irpef vengono coperti dalla spending review guadagneranno meno i burocrati e di più gli operai ma dal punto di vista della domanda il gioco è a somma zero.

 

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