Testamento fine vita, divisioni tra i medici

Dalla Rassegna stampa

Il punto. Quello che serve al titolista per dare un senso al pezzo: il testamento di fine vita che il Comune si prepara a custodire ed archiviare non ha valore legale in quanto non esiste normativa nazionale che ne renda cogente la validità, ma ha sicuramente un forte valore di moral suasion nei confronti del medico che deve decidere se continuare o interrompere la terapia. Tutto quello che sta intorno al punto. La discussione che si è tenuta ieri in Commissione a Palazzo Marino: una delle più intense, passionali, dure dell’intera legislatura.

In aula ci sono quattro medici. L’oncologa dell’Istituto dei tumori, Sylvie Menard, il consigliere dell’Associazione medici cattolici milanesi, Alberto Scanni, il vicepresidente dell’Associazione europea cure palliative, Augusto Caraceni, il rappresentante dell’Aido, Mario Riccio, l’anestesista che staccò la spina a Piergiorgio Welby. Anche tra loro ci sono valutazioni diametralmente opposte: «Fino a dieci anni fa - racconta la Menard - per me il testamento biologico era sacrosanto. Poi ho avuto un’esperienza personale che mi ha cambiato la visione della vita. Ho preso il testamento biologico e l’ho ridotto in pezzi piccolissimi. Mi preoccupa l’eccessiva burocratizzazione, perché quando uno sta male e vuole cambiare decisione, la sua preoccupazione non può essere quella di andare in Comune a stracciare il testamento». Parla dei malati di Alzheimer e della loro condizione: «Forse sarebbe meglio dare vita a un ufficio di consulenza ai pazienti, altrimenti si rischia una strage di innocenti». Riccio invece riporta dei dati. «Il tema dell’incapacità di intendere e volere è urgente. Il 90% dei pazienti che viene ricoverato in una rianimazione in Italia non è già più in grado di intendere e volere al momento dell’ingresso. Se il paziente fosse correttamente informato della sua malattia, potrebbe decidere - o meglio aver precedentemente deciso e già messo per iscritto - a quali ulteriori terapie intenda sottoporsi e quali vuole intende rifiutare». Solo il 20% di quel 90% ha lasciato scritte le sue volontà. Ma lo stesso studio riportato da Riccio spiega che il 60% dei decessi in rianimazione «è causa diretta della decisione clinica di ridurre una delle precedenti terapie». «Queste decisioni - conclude Riccio - vengono adottate dai sanitari, talvolta in assoluta solitudine, spesso assieme ai familiari con i quali si tenta di ricostruire la volontà del paziente». Numeri da brivido: 16 mila ogni anno. I consiglieri chiedono. Discutono. Vogliono capire di più. In molti si sentono impreparati perché il tema sovrasta amministrazione, politica e leggi. Lo esplicita in uno sfogo il professor Scanni: «Certe cose non si possono normare, c’è l’etica». Resta la posizione del Comune: «Sono fiducioso - dice l’assessore Pierfrancesco Majorino - come nel caso delle unioni civili che indicheremo una strada utile a livello nazionale».

 

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