Lo Stato si fa estorsore tra corruzione e sprechi

Dalla Rassegna stampa

Stando le cose come stanno, segnalerei a Marco Pannella l’esigenza di denunciare lo Stato italiano come delinquente abituale non più soltanto, come egli meritoriamente propone, per il reato internazionale di tortura a danno delle persone ristrette in carcere, ma anche per il reato di estorsione in danno dei cittadini che pagano le tasse. Nel relativamente povero Sud dell’Italia la macchina estorsiva è costituita dà pesante sistema del crimine camorristico, indranghetistico e mafioso, che spreme con la violenza le modeste risorse economiche soprattutto dei negozianti, e contro cui deve funzionare la macchina statale della legalità.

Ma dal relativamente ricco Nord dell’Italia, dove vigoreggiano i potenti imprenditori dei grandi lavori pubblici, è lo Stato stesso spinto a funzionare come macchina estorsiva a danno del tessuto economico dell’intero paese. Mi spiego. Lo Stato coni suoi poteri centrali e periferici attraverso le innumerevoli forme di fiscalità sottrae ai cittadini molta parte delle risorse da loro prodotte, e a ciò viene legittimato sia formalmente dalle norme approvate dalle istituzioni elettive sia sostanzialmente dà dovere di assicurare le condizioni necessarie alla conservazione e allo sviluppo della vita civile. I giornali in questi giorni narrano un ventennio di malaffare pubblico, con le vicende relative à terremoto dell’Aquila, à G8 della Maddalena, ai mondiali di nuoto, e giù giù fino all’Expo di Milano e à Mose di Venezia.

Tutti si mostrano arrabbiati, e le «grida» contro la corruzione si acutizzano anche se discreditate. Però, a retrocedere nel tempo, ben più addietro di Tangentopoli, va ricordata la madre di tutte le estorsioni di Stato. Per una teoria di matrice fanfaniana degli anni ‘60 del secolo scorso, l’IRI cioè le aziende pubbliche dovevano investire «secondo gl’interessi della collettività» anche quando ciò per l’antieconomicità degl’investimenti avesse generato «oneri impropri» per. È facile immaginare quali interessi non certo «sociali», ma di partiti, correnti, persone, alla lunga o in breve finissero per servire siffatti investimenti.

Così la forza legittima dello Stato si riduceva all’uso illegale per privati vantaggi, arricchendo gruppi o singoli, gonfiando il passivo dei bilanci statali, incrementando il debito pubblico, generando il fangoso impasto di politica e affari. Qui sta il primo anello della catena che con varie vicende e forme giunge fino al Mose di Venezia. Fino a quando la macchina pubblica in nome della legalità costringe i cittadini onesti a consegnarle risorse, di cui una parte cospicua finisce indebitamente nelle voraci borse di suoi più o meno clandestini manovratori, lo Stato funziona come un gigantesco e irrefrenato estorsore.

 

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