Spread tra efficienza e centralismo

Lo scandalo del Consiglio regionale del Lazio suggerisce qualche riflessione. Fino a poco fa, infatti, la cosiddetta prospettiva global-local era il leitmotiv dei dibattiti moderni sulla riforma dello Stato. Il corso della storia è poi rapidamente cambiato: nessuno più ne parla, la questione dominante è diventata quella dello spread con la sua tendenza a rafforzare i poteri centrali. In Italia, ad esempio, il decreto sulle liberalizzazioni ha reintrodotto, seppure fino al 2014, la Tesoreria Unica.
Anche lo stile giuridico è emblematico: la norma ha letteralmente disposto, infatti, la sospensione della riforma del 1997 sulla Tesoreria Mista (più adeguata al nuovo sistema autonomistico che già allora si iniziava a delineare) e provvisoriamente ripristinato una legge del 1984. Una legge, quest'ultima, figlia del tempo in cui le autonomie territoriali vivevano di finanza derivata, senza tributi propri (Ici, Imu, Irap, ecc. non esistevano, tutto ruotava sull'infelice binomio trasferimenti statali/spesa storica) e il testo della Costituzione era quello del 1948, non quello riformato in senso autonomistico nel 2001. La questione sarà discussa il 4 dicembre dalla Corte costituzionale, investita da numerosi e bipartisan ricorsi (da Cota a Orsoni).
Nei momenti di crisi l'equilibrio tra ragioni dell'emergenza e quelle dell'autonomia si dimostra quindi un argomento delicato, soprattutto da noi, dove possiamo vantare il peggio e il meglio del mondo. In Italia alcune esperienze di autonomia sono un'eccellenza a livello mondiale (ad esempio nella sanità, come rapporto costi/qualità) ma esistono anche situazioni disastrose, quasi irrimediabili. Oggi soprattutto ci si interroga sugli sprechi delle Regioni (dopo il caso Sicilia arriva appunto quello del Lazio), si lavora alla riforma delle Province, si pensa a come affinare la spending review sui Comuni, nell'imminenza dei fabbisogni standard. Molto è stato fatto, anche con il federalismo fiscale, che ha introdotto anche misure forti e opportune come il fallimento politico; molto ancora si potrà fare, ma stiamo attenti a non fare di tutta un erba un fascio, buttando il bambino con l'acqua sporca.
Un errore, scriveva Chesterton, è una verità impazzita. Un esempio recente: da qualche tempo il ministero dell'Economia gestisce in forma centralizzata il servizio dei cedolini stipendiali per tutte le amministrazioni statali. Una riuscita iniziativa, se non fosse che l'articolo 5, comma 10, del decreto legge 95/2012 obbliga ora Regioni ed Enti locali ad aderire a questo servizio; chi, alla scadenza dei contratti in corso, non vi ricorre e negozia un prezzo più alto di quello offerto dal ministero (molto basso: circa, in media, 2 euro a cedolino), incorre in nullità dei contratti, illecito disciplinare e responsabilità erariale. Sui contratti in corso, poi, la norma impone un obbligo di rinegoziazione che deve garantire un abbattimento degli attuali costi non inferiore al 15%, anche se la convenzione prevede un prezzo inferiore al contributo richiesto dal ministero.
In altre parole, se un'azienda garantiva il servizio a 1 euro a cedolino, è obbligata comunque - e questo è assurdo - a portarlo a 0,85. In questi termini si esula dallo schema abituale delle gare Consip, ritenuto legittimo dalla giurisprudenza costituzionale, e si configura uno sconfinamento irragionevole nell'autonomia costituzionale degli enti territoriali. La Corte costituzionale in più occasioni ha, infatti, ribadito che le norme statali «che fissano vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle regioni e degli enti locali ... ledono l'autonomia finanziaria di spesa garantita dall'articolo 119 della Costituzione» (così già la sentenza n. 95/2007, ma anche la più recente e articolata 193/2012). La norma, pur nel corretto intento di garantire risparmi, finisce quindi per concretizzarsi in un'indebita turbativa del mercato di settore, con danni rilevanti alle aziende in esso impegnate e ai sistemi virtuosi.
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