Se le politiche facilitano solo i concorrenti

L'Europa ha bisogno di una politica industriale binaria, capace di perseguire al contempo obiettivi importanti e obiettivi urgenti. Ossia far germogliare il futuro mentre si protegge il presente.
Gli obiettivi che guardano al futuro hanno a che fare con la natura stessa dell'Europa, con le sue virtù e le sue debolezze.
Un continente altamente civilizzato, colto, ad elevata sicurezza sociale: fiero delle conquiste sociali raggiunte e in qualche misura appagato, per niente disposto a battersi allo stesso livello dei Paesi emergenti che con molta energia intendono appropriarsi, come è giusto, di una quota maggiore della ricchezza mondiale. Ma anche un continente con molti anziani da accudire e pochi giovani per alimentare le nuove attività economiche. Garantire uno sviluppo all'altezza delle aspirazioni a questo insieme di Paesi, molti dei quali piccoli se presi singolarmente, ma non in grado di presentarsi con istituzioni e determinazioni unitarie, richiede una politica industriale con obiettivi alti. Occorre puntare sulle nuove tecnologie, in particolare con riferimento a quelle ambientali, verso le quali i Paesi emergenti saranno costretti a orientarsi non appena avranno colmato i bisogni più urgenti, per contenere gli effetti negativi che l'industrializzazione accelerata sta producendo.
L'Europa, proprio perché ha già imboccato la strada dello sviluppo meno veloce e di una maggiore stabilità, una strada verso la quale anche molti Paesi emergenti si stanno dirigendo, come dimostrano anche le proiezioni demografiche, è in grado di sviluppare e diffondere per prima soluzioni che poi si potranno esportare. Per far ciò dovrà anche migliorare la propria efficienza, investendo in infrastrutture e in sistemi di comunicazione e scambio, oltre che favorendo la concorrenza e la liberalizzazione dei mercati. Sono obiettivi la cui importanza è nota, come dimostra il fatto che da anni se ne parla e, con una certa lentezza, qualcosa si comincia a fare, con risorse limitate. Come sempre, le cose importanti debbono attendere mentre ci si occupa di quelle urgenti.
L'urgenza di cui si deve occupare la politica industriale oggi è la protezione delle capacità produttive esistenti a fronte della crisi che le rende eccedenti, e perciò economicamente insostenibili; con il rischio che vadano rapidamente distrutte a vantaggio di quelle che sopravviveranno sino a vedere la ripresa. Qui la debolezza dell'Europa è drammaticamente evidente.
Mancando una capacità politica centrale, viene lasciato libero campo agli egoismi nazionali, per effetto dei quali ogni Paese cerca di scaricare sugli altri i sacrifici da compiere, con la cinica coscienza che ogni azienda che muore oltre confine allunga la vita di quelle nazionali. Più una industria è dotata di impianti fissi a lungo utilizzo, più è vulnerabile dalla sovracapacità, maggiore è il danno per il paese ospitante. Ne deriva un gioco del cerino, da lasciare in mano al più sprovveduto, in cui, come nel dilemma del prigioniero, ciascuno cercando il proprio vantaggio individuale contribuisce alla rovina collettiva. Lo si vede bene nell'industria dell'auto, dove già alcuni governi si sono mossi per indurre i produttori locali a ridurre la capacità eccedente tagliando solo all'estero. In tal modo si alimenta una rovinosa guerra dei prezzi che allargherà il buco e porterà a nuove chiusure e nuove guerre.
L'auto non è un caso isolato: tutti i settori ad alta intensità di capitale sono nella medesima situazione e nessun Paese contribuisce per ora a uno sforzo comune. Con una possibile eccezione: nell'industria dell'acciaio, che per le sue caratteristiche strutturali è tra le più in affanno a causa della caduta di domanda, forse un paese spontaneamente darà un massiccio contributo alla salvezza degli altri con il proprio sacrificio. L'Italia, senza contropartite, potrebbe chiudere a Taranto il più grande stabilimento dell'industria europea del settore. Purtroppo non potremmo nemmeno vantarci del bel gesto, perché sarebbe evidentemente involontario. Scoprire, dopo decenni di funzionamento, che l'impianto ha caratteristiche inaccettabili dimostra quanto male sia stato gestito il rapporto tra industria e pubblici poteri in questo Paese. Così, se una eventuale chiusura dell'Ilva potrebbe avere l'effetto di un provvedimento urgente di politica industriale a favore del resto d'Europa, il discredito che ne deriverebbe per il Paese avrebbe un effetto strutturale e duraturo di dirottamento dall'Italia delle produzioni a forte intensità di capitale.
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