Il ritorno al futuro di Mr. Beneduce

Dalla Rassegna stampa

Il credit crunch colpisce sempre più duramente. I dati della Banca d'Italia dicono che fra dicembre e gennaio il credito ai residenti si è contratto di 30 miliardi, per oltre la metà a carico di famiglie e imprese: una caduta che non si era mai verificata e che basta da sola a testimoniare la drammaticità della situazione. E fanno anche impallidire le giustificazioni più comuni: bisogna tenere conto anche della minor domanda collegata alla caduta della produzione, bisogna aspettare che la liquidità generosamente concessa dalla Bce arrivi all'economia reale, e via consolando.

In realtà, la contrazione dei prestiti che caratterizza questa fase della crisi finanziaria mette a nudo alcuni squilibri strutturali che il sistema bancario europeo, non solo italiano, ha accumulato, facendo lievitare il rapporto prestiti-depositi oltre il 100% e aprendo così un vistoso funding gap che è stato colmato facendo ricorso al mercato obbligazionario, che fino alla crisi finanziaria comportava costi molto contenuti. Se consideriamo solo la raccolta e gli impieghi con residenti, le banche italiane hanno oggi un deficit di 383 miliardi di euro, che si è aggravato nel corso del 2011, per effetto di una contrazione dei depositi da gennaio a novembre di quasi 50 miliardi.

In altre parole, le banche stanno subendo un autentico deposit crunch, che a sua volta dipende dalla caduta del reddito e dall'incertezza generale che caratterizza questa delicata fase congiunturale. E non consola più di tanto sapere che le banche europee - che complessivamente hanno un funding gap di oltre 2mila miliardi di euro - navigano in acque non migliori delle nostre.

Questi pochi dati di fatto dimostrano quanto fosse necessaria la decisione della Bce di immettere quasi mille miliardi di euro di liquidità nel sistema bancario di Eurolandia, ma al tempo stesso fanno capire che occorre interrogarsi sugli scenari futuri, che non sono affatto incoraggianti. O le banche riducono progressivamente il tasso di crescita degli impieghi per adeguarlo alle loro capacità di raccolta, oppure ritornano al finanziamento sul mercato obbligazionario a costi più alti del passato. Il primo scenario comporterebbe una riedizione del lento e penoso deleveraging avvenuto in Giappone negli ultimi due decenni. Il secondo implica una sensibile diminuzione dei già ridotti margini di profitto, con tutte le conseguenze che si possono immaginare nei già turbolenti rapporti con gli azionisti grandi e piccoli. Ovviamente, c'è uno scenario ancora più preoccupante: le banche si assuefanno alla "droga" del finanziamento facile della Bce e chiedono il prolungamento nel tempo delle già eccezionali condizioni praticate con il Ltro. Nonostante qualcuno già parli di zombie banks con riferimento alle banche europee, non sembra peraltro un'ipotesi realistica, visti i vincoli della Bce. Ammesso che qualcuno ci stia pensando seriamente, qualcosa si spezzerebbe prima nei delicati equilibri politici fra Berlino e Francoforte.

E allora? Il vero problema è che in Europa, e quindi anche in Italia, non si è ancora cominciato a discutere veramente di come dovrà essere il sistema finanziario dopo la crisi e di come si dovrà garantire che le banche assolvano la loro funzione fondamentale, che è quella di fornire un flusso adeguato di credito all'attività produttiva.

Sono state formulate molte proposte, non poche delle quali al limite dell'utopia, ma nessuna appare in grado di risolvere il problema nell'arco temporale dei prossimi tre anni, cioè quello dell'intervento di emergenza della Bce.

Finora si è infatti dato per scontato che il problema fondamentale fosse quello di superare la fase peggiore della crisi: passata 'a nuttata - come avrebbe detto Eduardo - tutto sarebbe tornato alla normalità. Purtroppo non è così e l'esplodere della crisi del debito sovrano europeo ha dimostrato che il funding delle banche è un problema strutturale, non contingente, che richiede una soluzione adeguata.

L'aritmetica della finanza è elementare: se vogliamo adeguare i prestiti bancari alla raccolta, dobbiamo fare due cose: trasformare una parte dei prestiti in titoli e fare in modo che questi siano apprezzati dal mercato più di quelli emessi dalle banche. Il primo passaggio richiede processi di securitisation ben più estesi di quelli realizzati finora: basti pensare che l'85% del debito ipotecario è iscritto nell'attivo delle banche europee, contro il 25% degli Stati Uniti. Il secondo richiede una qualche forma di garanzia pubblica, sull'esempio di quello che fanno da decenni gli Stati Uniti. Anche in questi tempi così problematici per i titoli pubblici, l'effetto netto per il costo del finanziamento dovrebbe essere positivo.

Naturalmente, l'ideale è trovare una soluzione europea, che consentirebbe fra l'altro di dare al soggetto in questione un nome adeguato al suo ruolo di sostegno alla ripresa e allo sviluppo: assai meglio di quello di "fondo salva-Stati" che induce subito a scongiuri poco eleganti.

Ma se i tedeschi riusciranno a sentire puzza di sussidio anche dietro proposte di questo tipo, nulla vieta che soluzioni innovative vengano promosse da singoli Paesi. L'Italia fra l'altro ha una storica tradizione da rinverdire: negli anni 30 le riforme di Beneduce riuscirono infatti ad accelerare il processo di investimento in un Paese povero di capitali e ricco di dissesti bancari. Perché non provare a ripetere l'esperienza di allora, utilizzando la Cassa depositi e prestiti e i suoi strumenti di intervento o altri istituti?

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