Quattro difetti da correggere

I dati sulla prima esperienza dell'Imu confermano i timori della vigilia. I municipi italiani, strozzati dai tagli nei trasferimenti e dai vincoli sui patti di stabilità, hanno avuto la mano pesante sui contribuenti. Nei limiti del possibile, i sindaci hanno cercato di difendere l'abitazione principale, in sostanza i residenti del comune, che sono anche i propri elettori. Ma su imprese commerciali e seconde case sono intervenuti pesantemente, con un'aliquota che supera spesso l'1 per cento.
Un'aliquota certamente elevata per un'imposta sul patrimonio. Ma una scelta in qualche modo voluta e prevista dal legislatore nazionale, che sull'incremento della tassazione degli immobili ha fondato buona parte della manovra del dicembre scorso.
Intendiamoci. Nella situazione di emergenza in cui ci trovavamo e, in parte, ancora ci troviamo, meglio sollevare gettito aggiuntivo con un'imposta sul patrimonio, tradizionalmente poco tassato in Italia, piuttosto che con incrementi d'imposta sui soliti noti, i lavoratori dipendenti e le imprese. Anche reintrodurre l'imposta sull'abitazione di residenza è stata una buona idea, sia per motivi di equità che di trasparenza.
L'emergenza può anche giustificare le incertezze che si sono avute sulle modalità applicative dell'imposta, a partire dai tempi dei pagamenti. Ma ora che la situazione tende a normalizzarsi, è opportuno intervenire d'urgenza per rimuovere almeno le assurdità più palesi dell'imposta.
La prima riguarda la definizione del valore patrimoniale degli immobili. Una tassazione anche pesante può essere accettata se comunque si ispira a criteri di equità, il primo dei quali è naturalmente una corretta definizione della base imponibile. Ma aliquote pesanti su un valore patrimoniale costruito su estimi catastali non rivisti da decenni e che riflettono in maniera assai diseguale i valori correnti, generano necessariamente sperequazioni inaccettabili. È dunque sconcertante che a molti mesi dal suo passaggio in Consiglio dei Ministri, la legge delega sul fisco, che prevede la revisione degli estimi, non abbia trovato ancora una approvazione definitiva in Parlamento.
La seconda riguarda la natura dell'Imu. Si tratta di un'imposta comunale o erariale? Se è la prima, che senso ha che lo Stato si prenda la metà dell'imposizione sugli immobili diversi dall'abitazione di residenza? Se invece è la seconda, perché i comuni possono determinarne l'aliquota? Questa sovrapposizione genera solo confusione e riduce la trasparenza. Meglio attribuire l'imposta con chiarezza all'uno o all'altro livello di governo, compensando gli effetti di bilancio con interventi sui trasferimenti ai comuni, le compartecipazioni o sugli altri tributi.
Per esempio, potrebbe non essere una cattiva idea attribuire interamente l'imposizione sugli edifici commerciali allo stato, lasciando ai comuni solo quella sulle abitazioni. Anche per contrastare gli effetti sugli incentivi dei comuni, che abbiamo visto puntualmente all'opera in questo primo esempio di applicazione dell'imposta. Ricordiamoci che le imprese non votano.
Il terzo intervento richiede una riflessione sul ruolo della tassazione del patrimonio nel nostro ordinamento. Il patrimonio si può tassare per il possesso, o al momento del trasferimento. Ci sono ragioni pro e contro le diverse opzioni; ma se si sceglie l'una si deve ridurre l'altra, o si rischia di gravare due volte sullo stesso cespite. In Italia tradizionalmente si è sempre tassato poco il possesso e molto il trasferimento; ora che si è deciso di puntare più sul possesso, è necessario ridurre le imposte sulle transazioni immobiliari. Anche per ovviare ai problemi di coloro che con un'imposta sulla proprietà più elevata possono non trovare più conveniente detenere lo stesso patrimonio immobiliare.
Il quarto richiede di rivedere la tassazione degli immobili locati. La genesi confusa dell'imposta, anche prima del governo Monti, ha condotto a eliminare alcuni dei vantaggi per gli immobili locai che erano previsti nella versione originale. Paradossalmente, e in contrasto con tutta la legislazione precedente, l'introduzione della nuova imposta ha ridotto gli incentivi a dare in affitto un'abitazione o per lo meno a farlo in modo palese. Questo perché con l'introduzione dell'Imu, i proprietari di immobili diversi dalla prima abitazione non locati non pagano più in sede Irpef i redditi presunti dagli immobili, mentre i proprietari di immobili locali devono pagare l'imposta sui redditi derivanti sugli affitti, o in sede Irpef o con una cedolare secca. I comuni hanno la possibilità di ridurre l'aliquota per immobili locati, ma come si vede, lo hanno fatto ben poco.
Qui le soluzioni sono solo due. O si riduce per legge l'aliquota Imu sugli immobili locati, recuperando in qualche modo la perdita di gettito. Oppure si reintroducono in sede Irpef le rendite catastatali per gli immobili non locati, un'ipotesi forse da preferire perché avrebbe effetti positivi sul gettito ed eviterebbe di rendere ancor di più l'Irpef, un'imposta sui soli redditi da lavoro.
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