Presidenzialista suo malgrado

Siamo seduti in sella a un paradosso. Non tanto per la rielezione di Giorgio Napolitano al Quirinale, quanto per le circostanze in cui si è consumata. In sé, la rielezione segna un evento eccezionale, ma niente affatto assurdo. Solo che in questa congiuntura l’eccezione alleva il paradosso, anzi una litania di paradossi.
Primo: i partiti hanno ringraziato Napolitano a mani giunte per avere accettato l’elezione. Ma per galateo e per logica è l’eletto che ringrazia, non l’elettore. Secondo: in base all’orologio delle nostre istituzioni, Napolitano avrebbe concluso il suo mandato a metà maggio. Però siccome abbiamo sprecato già due mesi senza un nuovo esecutivo (e con un Parlamento di belle statuine), ora si viaggia a tutto sprint: il 20 aprile l’elezione, due giorni dopo il giuramento, quindi via alle consultazioni sul governo. Così Napolitano ha riacquistato il potere di sciogliere le Camere che aveva perso il suo predecessore, cioè lui stesso. Ma per riuscirci ha dovuto dimettersi anzitempo, anticipando il passaggio di consegne. Insomma Napolitano si è dimesso per essere riammesso, e con la mano destra ha trasmesso le consegne alla sua mano sinistra. Ma il paradosso non fa capolino soltanto da queste singolari procedure. No, s’annida soprattutto nei contenuti, nella sostanza della vicenda che si è appena conclusa. Dove la stessa maggioranza (Pd-Pdl-Scelta civica) colata a picco su Marini, è tornata a galla su Napolitano: una maggioranza intermittente, come la lucetta delle frecce. Dove la (ri)elezione di un uomo di sinistra fa sorridere la destra, che ha scongiurato lo spauracchio di Romano Prodi, e che si è mostrata ben più disciplinata e più coesa del Partito democratico. Dove il Parlamento più giovane della storia repubblicana ha scelto il presidente più attempato che sia mai salito al Colle. E dove infine il maggior successo dei partiti (738 voti per Napolitano) ne decreta al contempo l’insuccesso. Perché sono stati incapaci d’offrire una proposta nuova, aggrappandosi come naufraghi al vecchio bastimento; e così hanno dichiarato al mondo tutta la propria inconcludenza, impotenza, inconsistenza. Diciamolo: meno male che è andata a finire in questo modo. Immaginate lo sfacelo se Napolitano avesse rifiutato la candidatura, o se quest’ultima fosse stata impallinata nel segreto dell’urna, com’è accaduto a Prodi e a Marini. Dopotutto lui resta una garanzia, oggi come ieri.
Anche nella soluzione scelta, però, alberga il paradosso. Non tanto perché le politiche del 2013,la cui parola d’ordine era il ricambio di classi dirigenti, fin qui hanno generato unicamente la conferma del nostro più alto dirigente. Quanto piuttosto per la strategia di vasi comunicanti che è stata inaugurata. Difatti la politica in stallo ha messo in stallo le stesse istituzioni: prima il Parlamento, poi il governo, infine la presidenza della Repubblica. E allora per sbloccare il Quirinale si è rivolta al Quirinale, facendo coincidere il vecchio con il nuovo. Di questo passo il prossimo presidente del Consiglio sarà Mario Monti. E Napolitano? Ne esce super-rafforzato, un gigante in mezzo a tanti nani. Da qui i lamenti verso la monarchia repubblicana che avrebbe attecchito ormai in Italia. Errore: l’uomo ha già dimostrato in lungo e in largo il proprio rispetto per le assemblee parlamentari. Tanto che la sua prima denuncia contro l’abuso dei decreti legge e dei voti di fiducia risale all’agosto 2006, ai tempi del governo Prodi. Però Napolitano incarna suo malgrado un’avvisaglia del presidenzialismo prossimo venturo. Pensateci: se la sua elezione fosse stata sottoposta direttamente al corpo elettorale, chi avrebbe vinto fra lui e Rodotà? E quale altro uomo politico italiano viaggia all’80 per cento dei favori popolari? Sicché il nuovo sistema sta sbocciando dalla scorza del vecchio. È l’ultimo paradosso in cui siamo rimasti intrappolati: per costruire il futuro, dobbiamo scavare nel passato.
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