Nell'inferno del carcere

L'inquilino del terzo piano-letto del carcere di Santa Maria Maggiore deve dormire legato. Perché cadendo da quell'altezza potrebbe farsi davvero male, anche se in qualche caso il volo verrebbe paradossalmente attutito da altri detenuti, costretti a dormire sul pavimento.
Il recluso non può restare sempre in piedi, nella propria cella, ma deve farlo a turno con gli altri occupanti, perché non c'è spazio a sufficienza per consentire a tutti - e contemporaneamente - di usufruire del sacrosanto diritto di sgranchirsi le gambe.
Che sia o meno in attesa di giudizio, il detenuto non può lavorare ne andare in biblioteca, non può occupare il proprio tempo con qualche attività, ma è costretto a restare per 22 ore della giornata nello stesso luogo dove mangia, dorme, fa i propri bisogni. Il mondo di chi occupa una cella è uno spazio individuale di meno di tre metri quadrati, quando per legge dovrebbe essere tre volte maggiore. Significa che la popolazione carceraria vive ammassata, accatastata, dentro un formicaio di ferro e cemento senza speranza.
Si è concluso da poco il dibattito in Senato sulle condizioni di vita dei detenuti italiani, innescato dagli scioperi della fame di Marco Pannella, dalle iniziative dei radicali italiani e dalle proteste degli avvocati penalisti. Nel pianeta-carcere si vive e si muore in condizioni disumane. Lo dimostra anche la situazione dei 16 istituti di pena del Nordest, al collasso. perché a fronte di una capienza di circa 3 mila posti, le persone presenti sono oltre 4400. Ogni due detenuti ce n'è uno in più che divide lo stesso spazio angusto, respira la stessa aria viziata e usa l'unico servizio sanitario della cella.
Le tabelle di questa pagine forniscono solo i numeri, impersonali, seppur eloquenti. Ci sono carceri come Vicenza (più 144 per cento), Treviso (più 112 per cento) e Tolmezzo (più 104 per cento) dove le presenze sono più del doppio di quelle previste. Ci sono la casa di reclusione di Padova (più 95 per cento), Santa Maria Maggiore a Venezia (più 89 per cento) e Udine (più 95 per cento) dove si sfiora il raddoppio del numero di persone.
Dietro le cifre ci sono le storie, le sofferenze di chi condannato a espiare pene o detenuto in attesa di giudizio - si trova in una situazione ambientale disumana. Allo sciopero della fame hanno aderito perfino alcuni direttori di istituti penitenziari e questo la dice lunga su quanto gli operatori carcerari si rendano conto del dramma quotidiano in cui anche loro sono immersi.
«La tensione nelle carceri quest'estate è cresciuta in maniera esponenziale, perché il caldo e l'afa hanno acuito i problemi connessi alla detenzione e alla promiscuità». spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe, il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria. Che aggiunge: «Il governo e il Parlamento devono mettere concretamente mano a uno stato delle cose giunto a un livello di emergenza». Cosa fare? «Serve una nuova politica della pena, non più differibile, che ripensi organicamente il carcere. L'unica via d'uscita è il ricorrere alle misure alternative alla detenzione che come dimostrano i numeri sono lo strumento migliore per garantire la vera sicurezza per i cittadini». Chi si allontana dal carcere per una seria prospettiva di lavoro all'esterno, quasi sempre non tenta di commettere altri reati.
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