Mr. Smith e il processo al capitalismo

Dalla Rassegna stampa

Da Zuccotti Park, l’ex quartier generale di «Occupy Wall Street», il palazzone di Goldman Sachs sembra quasi un miraggio. Un enorme obelisco di vetro e metallo che torreggia un po’ arrogante sul cielo di New York» e che per mesi è stato un obiettivo, visibile ma non raggiungibile, per i ragazzi del «movimento».

Così vicino eppure così lontano - fino a quando, due settimane fa, Greg Smith ha colmato la distanza metaforica e reale tra chi a Wall Street si accampa e chi ci lavora.

Smith è passato da sconosciuto impiegato di Goldman a grande accusatore del mondo della finanza mondiale grazie a 1.300 parole al veleno pubblicate dal New York Times.

Una lettera aperta di dimissioni che è diventata un fenomeno virtuale – Google conta circa 70 milioni di menzioni del pezzo – e ha provocato danni reali all’immagine di Goldman e del settore bancario internazionale.

«Non ci voleva. Questa proprio non ci voleva», è stata la reazione a caldo di un mio amico che lavora per Morgan Stanley e che di solito fa salti di gioia quando il rivale storico Goldman è nei guai.

Smith non ci vuole, non tanto per quello che ha detto ma per quello che è diventato: il porta-bandiera di un’opinione pubblica che vede nella finanza la radice di quasi tutti i mali del capitalismo moderno.

Quando Smith spiega che oggigiorno Goldman mette gli utili della banca prima dei bisogni dei clienti, nessuno si dovrebbe stupire.

Le banche d’affari sono associazioni a scopo di lucro ed hanno il dovere di fare soldi, nei limiti della legge, per pagare azionisti ed impiegati. I clienti di Goldman – gli hedge funds, le grandi multinazionali, i super-ricchi – questo lo sanno benissimo. Da sempre.

E sarà anche vero che, come racconta Smith, alcuni suoi colleghi si siano riferiti a clienti chiamandoli «muppets» - lo slang inglese che usa le marionette del Muppet Show come sinonimo per «idioti».

Ma il fatto che l’humour dei banchieri sia spesso puerile ed offensivo – questo lo posso confermare - non è prova lampante che la finanza sia tutta da rifare, per dirla alla Bartali.

Eppure, quando Smith ha pontificato dall’alto pulpito del New York Times, la gente nel villaggio globale ha applaudito fragorosamente.

«Il re è nudo», hanno gridato con gioia i blog e le colonne dei giornali. Robert Reich, l’ex ministro del Lavoro nel governo di Bill Clinton, e uno dei santoni intellettuali della sinistra del Partito Democratico, ha persino coniato un aforismo: «Se togli la cupidigia da Wall Street, ti rimane solo il marciapiede».

Reazioni senz’altro comprensibili perché le banche di colpe ne hanno molte e non solo per aver contribuito alla crisi rovinosa del 2007-2009. È difficile difendere Wall Street, la City di Londra e Piazza Affari quando non perdono occasione di dimostrare arroganza, egoismo ed insensibilità ai problemi della gente comune.

Il mea culpa del mondo finanziario dopo i problemi gravissimi degli ultimi anni non è stato né abbastanza lungo né abbastanza sincero e le critiche sono in gran parte meritate.

Ma l’inquietudine evidenziata dalla fama istantanea del pamphlet di Smith va ben al di là di Goldman e Wall Street. Il dimissionario dirigente è diventato, suo malgrado, simbolo e sintomo di un malessere profondo nei confronti del capitalismo.

È un paradosso che, quasi un quarto di secolo dopo la caduta del Muro di Berlino, l’ideologia e modo di vita che pensavamo trionfanti siano sotto accusa. Dai manifestanti di Occupy ai greci disperati che ergono barricate nelle piazze, a «pentiti» come Mr Smith, il male di vivere dell’Occidente «ricco» sta raggiungendo livelli altissimi.

Persino in Cina, che ha scommesso le sue ambizioni di egemonia globale su un’industrializzazione sfrenata, la nuova leadership parla di coesione sociale, di aiuti alla popolazione più povera e di un rallentamento nella proliferazione del capitalismo.

Il settore bancario, in questo frangente, è danno collaterale: l’agente più visibile, e sgradevole di un sistema che non piace.

I motivi per la crisi di fiducia sono ben noti: la recessione, prima in America ed ora in Europa, il divario sempre più grande tra i ricchi e i poveri del mondo, e le paure di un declino terminale dell’Occidente in favore delle economie emergenti dell’Est e del Sud.

Ma avere coscienza dei problemi non aiuta più di tanto quando le alternative sono poche e poco rassicuranti. Smith, Reich e i ragazzi di «Occupy» distruggono senza ricostruire, attaccano lo status quo senza offrire una visione realistica del futuro.

Non c’è più tempo per utopie, e non solo perché le grandi idee astratte del passato non hanno funzionato, basti pensare al «comunismo dal volto umano», le «terze vie» dei Tito, Castro e l’autarchia dell’India di Nehru.

In questo frangente, con un’economia mondiale in difficoltà e tensioni elevate sia a livello sociale che geopolitico, il pragmatismo è l’unica soluzione. Non abbiamo più il lusso di sognare di sistemi diversi, dobbiamo riformare e riparare ciò che abbiamo.

E la realtà è che, dopo anni di tentennamenti da parte di governi e privati, le riforme stanno arrivando.

In America, il Congresso, la banca centrale ed altri regolatori stanno scrivendo migliaia di direttive che potrebbero rivoluzionare l’economia Usa. Dalle grandi banche alle società di pegno, le regole del gioco bancario in America stanno per cambiare, con l’obiettivo di evitare gli eccessi, errori e frodi che portarono alla crisi.

Il parallelo è con il grande crollo del mercato nel 1929: negli anni seguenti, gli Usa crearono un sistema finanziario che permise all’America di dominare il mondo del commercio per i 70 anni successivi.

In Europa, le riforme saranno più lunghe e dolorose ma forse ancora più importanti che negli Stati Uniti. L’austerità farà male ma, se messa in pratica in maniera seria ed intelligente, permetterà al continente di risorgere senza abbandonare la moneta unica e i frutti di decenni d’integrazione economica. In questo senso, l’emergenza di leader pragmatici come Mario Monti, Mario Draghi ed Angela Merkel è un buon auspicio.

Ma non di solo governo vive l’uomo e, per ora, le aziende e i consumatori mancano all’appello della ripresa economica sia in Europa che negli Usa.

È una questione di tempo: se il settore pubblico farà la sua parte, «gli spiriti animali» di Keynes faranno la loro, spingendo gli imprenditori ad investire e rischiare capitali e i consumatori a comprare.

Come disse Churchill della democrazia, il capitalismo è il peggiore sistema che abbiamo, a parte tutti gli altri che abbiamo provato.

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