«Mostri dell'inerzia» nello stato di diritto

Fu un cronista di nera dell'Unità ad avvertire telefonicamente la signora Licia Rognini il 16 dicembre 1969 che il cadavere Giuseppe Pinelli (sequestrato il 12 dicembre e trattenuto «per un tempo ben superiore a quello strettamente necessario per il suo interrogatorio») giaceva nel cortile della questura di Milano. La stampa, perfino l'Unità di allora, era più sveglia, meno ossequiosa di oggi alle autorità. La società civile, e non solo i parenti delle vittime - così parziali, così indifesi - esigeva, e a volte otteneva, trasparenza e giustizia. Quando la signora Pinelli telefonò al commissariato per chiedere conferme e spiegazioni: «Ma con tutto quello che abbiamo da fare le pare che ho il tempo di avvertirla?!» fu l'elegante risposta di Luigi Calabresi (poi denunciato dalla vedova dell'anarchico e condannato per quello assai strano volo dal quarto piano e condannato nel 1975 dal giudice D'Ambrosio con altri sette complici. L'episodio della telefonata è raccontato a Pasolini da Licia Rognini in 12 dicembre, il documentario di Lotta Continua sulla strage di piazza Fontana.
Nulla è cambiato da allora, anzi molto è peggiorato dopo la legge anti droga, ci conferma Amnesty International, non fosse che, dopo lo shock di «Mani pulite», il poliziotto prima e il magistrato dopo hanno meno tempo per interrogatori robusti e ficcanti del fermato senza la presenza del difensore. Almeno se si tratta di un onorevole o di un cittadino altrettanto protetto, misteriosamente incappato in qualche guaio. Ma anarchici, drogati, ultras, extracomunitari, travestiti e «senza fissa dimora albanesi» saranno pestati ben benino, se necessario, senza che nessuno possa mai dire «fermatevi!». Tanto, chi se ne accorge? Chi protesterà? Chi oserà denunciare la morte in cella di 200 persone all'anno con le stigmate del debosciato - sigle, né corpo né anima, nei brevi trafiletti delle pagine di cronaca - senza beccarsi una controdenuncia per diffamazione visto che una ferrea rete di omertà protegge polizia, carabinieri, guardie carcerarie, infermieri, medici e qualche politico che dimostra sempre che quelle morti furono tutte «burocraticamente corrette»?
Fu il 148esimo morto del 2009 sotto custodia pubblica Stefano Cucchi, il giovane di Tor Pignattara di 31 anni massacrato di botte da ignoti durante gli interrogatori dei carabinieri e ritrovato cadavere - nelle foto che sembrano scattate a Auschwitz - all'ospedale «protetto» Sandro Pertini di Roma, il 22 ottobre 2009, dopo un arresto in flagranza di reato per spaccio di coca e hascisc avvenuto sei giorni prima. 140 persone lo hanno poi visto in quei 6 giorni (non i genitori, fermati alla porta da regolamenti che neppure Giovanardi riuscirebbe a congegnare se ce la mettesse tutta). Sarebbero stati in tutto 177 i morti dentro le celle quell'anno. A tutti loro, e anche a Marco Ciuffreda, 37 anni, il figlio della nostra giornalista Giuseppina Ciuffreda, morto in carcere nel 2000 dove era stato illegalmente trattenuto per oltre 52 ore, è dedicato il film documentario, presentato nella sezione Extra del Festival di Roma, 148 Stefano. Mostri dell'inerzia di Maurizio Cartolano, sceneggiato da Giancarlo Castelli, prodotto da Ambra Group e dal Fatto quotidiano che lo distribuirà in dvd il 30 novembre.
Il film, emotivamente potente, spiega come sia intollerabile negare tutti i diritti a un cittadino ìn uno stato dì diritto, e restituisce a Cucchi un corpo e un'anima, attraverso una ricostruzione più dettagliata possibile dell'assurdo caso, comprese le dichiarazioni del ministro Alfano, l'infografica animata per rendere plausibile il non documentabile, homevideo, interviste con esperti (l'avvocato di famiglia, Manconi, presidente di «A Buon Diritto»...), giornalisti indocili (Fatto, Liberazione e Cinzia Gubbini del manifesto), il padre di Stefano, la pugnace sorella Ilaria, documenti audio di Radio Radicale (il partito che più vuole abbattere le nostre leggi e carceri (non solo nell'edilizia) più medievali,compresa l'integralista legge anti-droga e il sistema di interessi commerciali che la metafisica antiabrogazionista ben protegge. Ma più che la riflessione umana, ferma ma pacata, più che porre domande, un documentario di denuncia dovrebbe anche prendersi la responsabilità di dare risposte, di anticipare o contestare la verità giudiziaria. Sul ruolo dei carabinieri, sotto pressione allora per il caso Marazzo, e del tutto scagionati dal processo in corso, si tace quasi, eppure erano e sono esplicitamente chiamati in causa dalla dichiarazione di Stefano al padre in aula («sono stato incastrato»), forse allusione di un pesce piccolo terrorizzato dopo lo sgarro al cartello principale che (insegna Ciudad de Juarez) ha reti politiche e poliziesche insospettabili? Domande impertinenti? Ma il giovane non fu incastrato e poi protetto proprio dall'Arma?
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