Manifattura da difendere

Dalla Rassegna stampa

Il caso Ilva è arrivato a un livello estremamente elevato di gravità e delicatezza.

Le conseguenze mettono a rischio un pilastro significativo della manifattura italiana e di tutto il sistema produttivo, non soltanto regionale. Pongono anche un problema di azione di risanamento che richiede risorse, energie, competenze e impegno quotidiano per molto tempo. L'esperienza dimostra che tali elementi vengono a mancare quando l'azienda muore. Se l'Ilva chiudesse, il danno sarebbe drammatico per l'economia del Paese, ma anche per le stesse condizioni ambientali future.
Quanto elevato il danno lo abbiamo capito solo grazie alle indagini dei magistrati. Molti, tra cui chi scrive, non avevano contezza della vastità dell'opera di risanamento necessaria, così come emerge da un lato dalle contestazioni della magistratura, dall'altro dalla nuova Autorizzazione Integrata Ambientale emessa dal Ministro Clini. Si è dovuti arrivare all'azione giudiziaria, anche di grado penale, per affrontare il problema, che così viene trattato nel momento in cui le conseguenze diventano dirompenti. Forse è mancato l'intervento preventivo e concomitante che doveva monitorare la produzione nell'interesse collettivo e in contraddittorio con l'azienda; e questa viene accusata di aver in passato agito per facilitare tale mancanza.

Certo, l'arresto immediato della produzione farebbe cessare i fumi e le altre emanazioni. Resterebbe tutto quanto decenni di produzione hanno accumulato in superficie e nel terreno, insieme a un degrado economico che rischia di generare forme di degenerazione sociale e ambientale quali si manifestano in altri territori italiani meno fortunati di Taranto. Sì perché Taranto, proprio grazie all'industria pesante (quanta di essa sopravviverebbe senza il traino dell'Ilva, i suoi acquisti, i suoi prodotti e sottoprodotti, il traffico logistico e di servizi?) ha generato una base operaia e manageriale strutturata che si contrappone positivamente alla destrutturazione sulla quale in molte zone del Mezzogiorno prolifera l'economia alternativa alla legge. Far cessare la produzione e nel contempo impedire il degrado e risanare non si può. Interessi legittimi e costituzionalmente protetti si pongono in conflitto. Contemperarli, scegliendo soluzioni e rispondendone ai cittadini tocca alle istanze cui tali compiti sono demandati: il potere legislativo e quello esecutivo. Un decreto legislativo, emanato dal Governo, firmato dal capo dello Stato e presentato al Parlamento per la conversione in legge sono le risposte dei poteri appropriati, che fra pochi mesi si sottoporranno al giudizio degli elettori.

Non vorremmo vedere il potere giudiziario impegnato in scelte per necessità discrezionali orientate a graduare il raggiungimento di obiettivi tra loro contrapposti, che dovrebbero essere tutti raggiunti ma che non potranno esserlo. Non vorremmo vedere i magistrati impegnati in decisioni discutibili, che verranno inevitabilmente discusse; preferiamo vederli intervenire in condizioni di certezza, con i poteri illimitati di indagine e severi di sanzione che sono loro attribuiti.

 

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