L'urgenza di sostenere chi rimane competitivo

Dalla Rassegna stampa

I dati sul prodotto interno lordo italiano pubblicati ieri dall'Istat confermano i timori espressi da Confindustria e dalle altre associazioni imprenditoriali: la caduta dell'attività economica, che si verifica per il quarto trimestre consecutivo, ha raggiunto il 2,5% rispetto allo scorso anno e la diminuzione annuale già acquisita per l'intero 2012 è pari all'1,9 per cento. Quello che è peggio, il numero indice del Pil, che ne misura in sostanza il livello assoluto, è ritornato intorno ai valori della parte centrale del 2009, finora l'anno peggiore di questa crisi.

Sono numeri terribili, perché condensano i redditi dell'insieme delle famiglie italiane e testimoniano l'impoverimento del Paese. Ma al loro interno nascondono una realtà ancora più allarmante: la caduta della produzione industriale è stata del l'8,2 per cento. Se vogliamo vedere l'unico aspetto positivo, ciò significa che alcuni segmenti della produzione nazionale di ricchezza hanno sofferto meno della media.

Non si tratta tanto dell'agricoltura, che ormai incide poco sul totale, né dei servizi destinati alla vendita, che sono stati anch'essi fortemente penalizzati dalla caduta della domanda. Ciò che ha retto sono i servizi delle pubbliche amministrazioni, centrali e locali, la cui erogazione avviene in modo costante e sostanzialmente indipendente dalla domanda: infatti gran parte del valore prodotto dai servizi pubblici viene calcolato come equivalente al loro costo, ossia in buona sostanza al monte dei salari pubblici. L'effetto stabilizzatore di questa massa salariale costante ha attenuato l'impatto della crisi all'inizio, ma nel lungo andare l'effetto non è così positivo. Gli italiani non possono vivere solo dei servizi resi dai dipendenti pubblici: hanno bisogno di cibo, energia, prodotti industriali che importiamo in proporzioni sempre maggiori, perché quelli esteri costano meno.

Gli stessi servizi pubblici non potrebbero essere erogati senza quelle indispensabili importazioni. E per bilanciarle dobbiamo esportare, quasi esclusivamente prodotti industriali. Che sono quelli che rendono possibile anche la produzione dei beni pubblici e la remunerazione dei loro lavoratori. Per questo la caduta così forte della produzione industriale è particolarmente allarmante; se non si ritornasse presto a livelli più soddisfacenti ne verrebbe compromessa anche la possibilità di sostenere gli altri settori dell'economia. Si è già verificato per i servizi privati: la gente non ha soldi e ne compra meno. Non può fare altrettanto con quelli pubblici, perché è costretta a pagarli attraverso le imposte, il cui gettito è cresciuto del 4,3% mentre il redito dei contribuenti diminuiva del 2,5 per cento.

La spending review è la prima risposta all'esigenza assoluta di ridurre l'onere che grava sui contribuenti e in particolare sulle imprese esportatrici: perché l'obiettivo primo del Paese in questo momento deve essere quello di aumentarne la competitività. I provvedimenti per la crescita varati dal governo vanno nella direzione giusta, poiché agiscono in tutti i settori in cui si può progredire senza gravare sensibilmente sulle finanze pubbliche, in particolare nel campo delle infrastrutture finanziabili da capitale privato e nell'apertura di nuovi canali di finanziamento per le imprese medie. Certo è che l'uscita dalla crisi non può verificarsi solo restringendo i consumi, né tantomeno stimolandoli ricorrendo al debito o alla dilapidazione patrimoniale. Il risanamento finanziario, indispensabile e meritevole anche di sacrifici sostanziali, è solo una parte della cura. Il rimedio principale sta nelle mani delle parti sociali e consiste nello sviluppo di produzioni più competitive e più ricercate dai mercati, o in una maggiore produzione di servizi utili a parità di spesa, nel campo delle pubbliche amministrazioni.

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