L'Italia non è fuori pericolo

Dalla Rassegna stampa

Il buon andamento dell'asta dei BTp non può essere sufficiente a far rientrare il brivido corso ier sui mercati. Lo spread è tornato, per causa di un crollo dei rendimenti tedeschi, a livelli di guardia. Moody's ha declassato 26 banche italiane. L'Italia resta uno dei Paesi più esposti, meglio non dimenticarlo. Il percorso di riforme messo in campo dal Governo Monti è ancora a metà strada e quella che manca (in gran parte da percorrere in Europa) appare, giorno dopo giorno, la più impervia.

Per l'aumento della tensione sociale, per la fibrillazione dei partiti della "strana" maggioranza, per la conferma quotidiana della mostruosità del nostro debito e della esiguità delle risorse mobilitabili (il dato sul calo dello 0,5% delle entrate fiscali diffuso ieri dalla Banca d'Italia non fa certo ben sperare).

È per questo che l'azione di politica economica ha bisogno di poche priorità e ben chiare: innanzitutto lo sblocco vero dei pagamenti da parte dello Stato verso i suoi fornitori, senza derive causidiche o ambigue su chi abbia la responsabilità dell'azione di certificazione dei crediti e magari utilizzando la Cassa depositi e prestiti come garante (o anche come serbatoio per vere e proprie operazioni di factoring). Poi serve una riduzione della spesa pubblica che possa indurre finalmente un alleggerimento della pressione fiscale sugli onesti – lavoratori e imprese – ormai a livelli insostenibili.

L'azione di spending review di Enrico Bondi non può che essere solo un avvio di un'azione ben più massiccio che riduca anche l'impatto negativo e anti-competitivo della burocrazia per consentire alle energie del Paese di sprigionarsi più liberamente e senza zavorre.

Se mai ci fosse stato bisogno di ulteriori conferme di quale debba essere l'agenda la relazione annuale del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, è illuminante laddove denuncia la difficile saldatura tra economia reale e finanza. È la stessa che ancora separa il Paese reale e il Paese legale. Il primo soffre, si impoverisce, aumenta le diseguaglianze; il secondo ha prodotto per decenni regole pleonastiche, burocrazia opprimente, spesa improduttiva e dunque debito pubblico e tasse pesantissime, difficili da smaltire durante la peggiore congiuntura dal Dopoguerra. Risultato: asfissia economica, declino, legalità solo apparente, frustrazione e rabbia reale tra i cittadini. Il contrario di ciò che servirebbe all'Italia per imboccare con decisione l'«uscita di sicurezza» (per dirla con il titolo dell'ultimo libro di Giulio Tremonti di cui si sente vasta eco nella relazione di Vegas).

La stessa "distanza" si riscontra nello specifico caso della Borsa: le imprese sono piccole, magari anche poco propense a cambiare cultura quanto ad assetto proprietario e a trasparenza, ma certo non vengono incentivate a cambiare orizzonti. Hanno poco credito dalle banche, devono pagare costi e tasse altissime per la quotazione, subire un iter di listing particolarmente complesso. Ancora una volta fattori che aumentano la sensazione di sfiducia verso una burocrazia amministrativa inutilmente interdittiva, verso l'incapacità della giustizia di dirimere le eventuali controversie finanziarie in tempi ragionevoli e con equità. Non è un caso se il presidente dell'authority che controlla e vigila sull'andamento dei corsi azionari dedica un ampio paragrafo all'impoverimento delle famiglie italiane: il risparmio, tradizionale caposaldo del popolo più parsimonioso del mondo, viene intaccato. E con esso la fiducia nel futuro, nelle nostre stesse possibilità. Significa dunque che il tema del «calo del reddito delle famiglie» e del tenore di vita sta diventando un problema vero per la Borsa.

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