L'industria «vale» il Paese

Dalla Rassegna stampa

Il caso Ilva, il caso Alcoa o ancora le reazioni verso le multinazionali colpite dal terremoto, ma anche il caso Fiat con i travagli di Pomigliano e Mirafiori, sono altrettanti simboli di una non-politica industriale. Per decenni si sono sottovalutati i fenomeni e trascurate le risposte pubbliche. Eppure l'industria «vale» il Paese, a cominciare dai territori mai realmente riconosciuti come vero asset per la competitività nazionale. Anche adesso, per motivi diversi, i tempi dilatati dei (pochi) correttivi strutturali studiati finora per lo sviluppo, rischiano di risultare inadeguati.

Il dramma di una congiuntura sfavorevole – destinata a durare ancora a lungo – impone invece una scossa, rapida, efficace, profonda. L'eredità del fiscal compact e del pareggio di bilancio da primi della classe in Europa ci ha fatto riguadagnare la fiducia persa, anche se ci costa almeno 15 miliardi sottratti a fondi per lo sviluppo. La Bce di Mario Draghi ha creato un'efficace cintura di sicurezza sull'Europa di cui l'Italia sta finalmente beneficiando.

Lo spread sui nostri titoli decennali viaggia verso quota 319, soglia di sicurezza ed emblema di fiducia ritrovata. Ma non può bastare questo risultato al Governo Monti per poter dire "missione compiuta" se al termine dell'esperienza dell'Esecutivo tecnico la domanda interna giacerà ancora sottozero, i risparmi privati risulteranno pesantemente intaccati, la disoccupazione sarà al record storico oltre l'11% e la manifattura nazionale conterà la perdita di oltre il 20% della propria base produttiva. Un esempio? Il settore calzaturiero, gioiello del made in Italy, ha già ridotto in due anni la produzione di oltre un terzo.

La fiducia cartolare degli indici dei bond non si è tradotta in una ventata di fiducia nei comportamenti privati e collettivi. Deve preoccupare la "fuga" all'estero di quasi 300 miliardi di investimenti potenziali. E fino a quando il "riassetto morale" e di reputazione internazionale non avrà effetto sull'economia reale la percezione della recessione per gli italiani avrà sempre la stessa tragica connotazione apocalittica di quando il BTp era arrivato a quota 7,25% e lo spread a 525.

Chi esporta o lavora nei settori anticiclici – come è ad esempio l'alimentare – mantiene una parte dei margini e riesce a programmare gli investimenti. Ci sono esempi recenti di riscossa imprenditoriale; il gruppo Brevini che a Reggio Emilia inaugura un nuovo impianto hi tech da 30 milioni e punta sul rilancio del centro di ricerca e sviluppo; la Barilla che apre lo stabilimento dei sughi pronti con 40 milioni di investimento; il gruppo Noberasco che scommette ancora su un nuovo sito in Liguria con 25 milioni; il gruppo Guala che apre a Milano un nuovo impianto da 18 milioni.

O ancora la Mossi & Ghisolfi che scommette sul più grande impianto europeo di bioetanolo di seconda generazione. Eppoi le multinazionali tascabili del made in Italy classico o della meccanica, della chimica e del cemento che puntano sull'export (o sui margini realizzati negli stabilimenti esteri) e riescono a regisce in velocità. Sono solo alcuni esempi, tra i tanti, di chi ce la fa. Nonostante tutto e nonostante tutti. Ma nella stragrande maggioranza dell'impresa italiana conta il mercato interno. Che è praticamente scomparso.

La questione industriale italiana è soprattutto qui, nella gelata della domanda. Ma certo non sarebbe sufficiente un alleggerimento una tantum delle trediscesime per affrontarla con saggezza e lungimiranza. Il mercato sprigiona meglio le sue energie in un contesto di regole chiare (e poche), dove la burocrazia non sia un contropotere vessatorio anche quando apparentemente "amico". Non ci dice forse questo il mancato decollo delle domande di risarcimento danni del terremoto emiliano di cui diamo conto a pagina 49? O la solo parziale richiesta di recupero dei crediti vantati verso le pubbliche amministrazioni da parte delle imprese fornitrici?

Alla fine l'impegno del Governo per sbloccare quelle risorse rischia di restare un adempimento di forma senza sostanza. O meglio con la sostanza di un percorso di guerra per arrivare a una meta che sarebbe un diritto.

Nel frattempo la pressione fiscale sulle persone e sulle aziende oneste (al record del 68%) è tale da creare da sola l'eutanasia della base manifatturiera, posta del tutto fuori mercato in momenti di domanda calante. Sull'Irap il Governo dei tecnici avrebbe potuto dare un segno più incisivo e non rimandare al 2014 ogni correttivo. Il traccheggiamento intorno alla delega fiscale mostra come la legislatura volga al termine senza più quella spinta propulsiva che aveva caratterizzato gli esordi del Governo dei tecnici e la volontà costruttiva della sua "strana maggioranza". Le incompiute del Governo Monti così rischiano di essere molte.

L'intesa sulla produttività è l'unico segnale positivo per un reale recupero di competitività di sistema e molto è dovuto alla sola forza d'azione delle parti sociali.
Le inizitive sulle start up e sull'agenda digitale sono necessarie, ma risultano iniziative al margine rispetto all'enormità di un assetto produttivo che rischia l'implosione. L'avvio del programma per la diffusione della banda larga, infrastruttura cruciale, è ancora al palo.
Il Governo ha "venduto Italia" nei Paesi Arabi e in Cina. Con risultati tangibili. Ma la questione delle questioni è un'altra: come "vendere" l'Italia all'Italia.

 

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