L'euro merita maggiori tutele

Dalla Rassegna stampa

Se un Paese svaluta la propria moneta tendenzialmente diventa più competitivo, anche se paga di più i beni importati (alcuni dei quali magari poco sostituibili, come l'energia, e ciò non è un bene). Comunque, l'export ci guadagna, è un dato di fatto. E molti Paesi (Italia compresa all'epoca delle "svalutazioni competitive") hanno spesso puntato sulla leva del cambio per vendere di più i propri beni e servizi all'estero con un certo significativo beneficio per la crescita del Pil.

Ma se un Paese è già di per sé piuttosto competitivo e per di più, grazie a una serie di fattori economici, istituzionali o altre concause connesse ai rapporti di forza esistenti tra aree geopolitiche e Stati, riesce a non rivalutare più di tanto la propria moneta in presenza di crescenti e addirittura sfacciati surplus commerciali, quel Paese diventerà ancora più forte, un vero "tritasassi", e per i suoi concorrenti saranno dolori.

La storia degli ultimi undici anni, da quando la Cina è entrata nell'Organizzazione mondiale del commercio (Omc-Wto) e le si sono aperte davanti sterminate praterie di nuovi mercati, è quella di un Paese che non solo ha potuto mettere sul piatto della bilancia a proprio vantaggio fattori competitivi come il basso costo del lavoro o la minore attenzione ai costi ambientali, ma che ad essi ha aggiunto anche la potentissima arma del cambio.

Permetti ad un Lance Armstrong di prendere per sette anni Epo a volontà e poi non meravigliarti se vince sette Tour de France di fila. Allo stesso modo, permetti alla Cina di non rivalutare se non marginalmente la sua moneta per dieci anni e poi non sorprenderti se il suo surplus manifatturiero con l'estero in quel lasso di tempo è letteralmente esploso (+1.600%), passando dai 46 miliardi di dollari del 2001 ai 740 miliardi del 2011: una cifra che è ormai più alta dell'attivo commerciale manifatturiero dei vecchi winner Germania (381 miliardi di dollari) e Giappone (323 miliardi) presi insieme (essendo 704 miliardi la somma dei due).

In questi anni Pechino ha strutturalmente mantenuto ancorata la propria moneta al dollaro, pur a fronte di una impressionante progressione della propria bilancia dei pagamenti (spinta dal surplus industriale) e di una contemporanea ed altrettanto impressionante accumulazione di riserve valutarie. Dalla fine del 2001, cioè dal suo ingresso nella Omc, alla fine del 2011, le riserve valutarie di Pechino sono salite secondo il Fondo Monetario Internazionale da 212 miliardi di dollari a ben 3.181 miliardi (con una crescita del 1500% gemella di quella dell'attivo manifatturiero).

Nello stesso tempo, il renminbi si è rivalutato sul dollaro solo del 31,4% e si è addirittura deprezzato sull'euro del 9,7% (essendosi la moneta unica rivalutata sul dollaro del 45%). Sicché l'Eurozona è stata nel complesso la vera perdente della guerra delle valute dell'era globale: guerra che non è cominciata solo nelle ultime settimane ma che dura da oltre un decennio.

 

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