L'equilibrio dei conti non basta

Il voto di ieri alla Camera sul fiscal compact e sul nuovo meccanismo di stabilizzazione finanziaria (Esm) ha evidenziato con chiarezza gli umori di parte della composita maggioranza (soprattutto il Pdl) che sostiene il Governo.
A nche nel Pd diversi deputati, pur votando a favore, hanno manifestato quanto meno dubbi e preoccupazioni per quel che potrà accadere sui mercati da qui al 12 settembre, quando la Corte Costituzionale tedesca emetterà il suo verdetto sui meccanismi posti a salvaguardia della disciplina di bilancio e della stabilità finanziaria dell'eurozona. In realtà, se ci si sofferma sul primo aspetto, l'Italia dovrebbe iscriversi tra i paesi che, rebus sic stantibus, meno hanno da temere dal punto di vista della tenuta dei propri conti pubblici.
Già nel 2013, differentemente da quel che avverrà in molti altri Paesi e spread permettendo (questa resta la vera spada di Damocle che peraltro non rispecchia i fondamentali della nostra economia), potremo conseguire una posizione di disavanzo strutturale vicino al pareggio, giocando peraltro sul tavolo delle eventuali trattative anche la carta di un avanzo primario (il saldo di bilancio al netto degli interessi) di tutto rilievo: 3,6% del Pil quest'anno, 4,9% nel 2013, 5,5% nel 2014. Certo incombe la mannaia della riduzione automatica del debito di un ventesimo l'anno della differenza che ci separa dal fatidico tetto limite del 60% del Pil. Poiché siamo costretti a impegnare 80 miliardi per gli interessi che servono a finanziare un debito al 123% del Pil, e con la pressione fiscale che si avvia a superare il 45%, i margini di manovra paiono esigui. Ma la variabile decisiva è il denominatore. Se i conti sono sostanzialmente in linea, non si forma nuovo debito e dunque può bastare una crescita del Pil nominale del 2,5% per cominciare a ridurre «in automatico» il nostro pesante debito. Raggiungere una posizione di equilibrio strutturale dei conti pubblici è dunque fondamentale, ma non sufficiente se non si riprende a crescere. Ogni variazione al ribasso del Pil nominale imporrebbe di correre ai ripari. Per stabilizzare senza traumi e manovre draconiane il percorso di rientro dal debito, occorre in ogni caso che il pareggio di bilancio, anche al di là del vincolo costituzionale, si confermi negli anni a venire. In caso contrario, si interrompe il circuito virtuoso, a meno che non si decida di abbattere il debito pubblico a suon di dismissioni del patrimonio immobiliare.
È una missione complessa ma non impossibile. Ne consegue che buona parte degli sforzi, d'ora in avanti e non appena usciti dal tunnel della recessione dovranno essere concentrati nell'accrescere il potenziale di crescita della nostra economia, almeno per la parte che ci compete. In più, potremmo far valere i fattori rilevanti, già previsti dal «six pack» e confermati dal «fiscal compact»: il risparmio netto del settore privato, la solidità del sistema creditizio, l'impatto a regime delle riforme strutturali già poste in essere anche in direzione della correzione degli squilibri macroeconomici. Infine, almeno per quest'anno, le circostanze eccezionali, tra cui il progressivo peggioramento del ciclo economico, aggravato dalle conseguenze di calamità naturali quali il terremoto in una Regione strategica come l'Emilia-Romagna.
Non per questo potremo dormire sonni tranquilli. Nuovi rilevanti scostamenti nella decisiva componente della spesa per interessi per effetto dell'impennata dello spread (che oscilla pericolosamente di poco al di sotto dei 500 punti base) comporterebbero la revisione degli obiettivi prefissati, a partire dallo stesso pareggio di bilancio. Potrebbe non bastare l'arma di riserva del potenziamento della spending review. L'esito dell'Eurogruppo di oggi è dunque di notevole importanza. Oltre alla ricapitalizzazione delle banche spagnole, si prospetta anche un intervento diretto del «salva-Stati»? Massima vigilanza, perché i nostri destini sono legati anche alla reazione dei mercati nei confronti della soluzione che verrà individuata per la Spagna.
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