Il lavoro per i carcerati, una misura di civiltà

Dalla Rassegna stampa

Non è facile affrontare il tema carcere e quello della funzione “rieducativa della pena” in riferimento al dettato costituzionale. Ancor più difficile è parlare di percorsi lavorativi per i detenuti in un momento di disperata crisi economica e sociale: l’obiezione “allora per star bene e lavorare bisogna delinquere” è sempre pronta, con grande dolore di chi il carcere lo conosce. Alla luce delle convenzioni stilate nei giorni scorsi tra il Tribunale di Sorveglianza, il carcere di San Sebastiano e i comuni di Sassari e Sorso riguardanti 6 detenuti, sento l’esigenza di una riflessione aperta che tenti di affrontare, seppur molto sinteticamente, alcuni aspetti relativi alla pena e al suo significato.
Nella maggior parte delle carceri italiane, i detenuti stanno in cella anche 20 ore al giorno, prevalentemente nell’ozio, nell’apatia e nello svilimento delle capacità sociali e relazionali: questa la spiegazione dei gravi atti di autolesionismo, dei tanti, troppi suicidi e tentati suicidi. Ecco che giaci troviamo davanti ad uno dei problemi centrali: come può un carcere siffatto rispondere all’esigenza della comunità esterna di una pena che possa portare e generare sicurezza?
Un tale carcere non riduce la criminalità: una carcerazione lesiva della dignità umana si trasforma, infatti, nella migliore delle “scuole di delinquenza o devianza”, con la conseguenza che, non soltanto il singolo recluso, ma la società intera si deteriora. La degradazione sociale, infatti, pesa inesorabilmente sulla nostra coscienza, ma anche sulla nostra sicurezza: i detenuti che hanno avuto la possibilità di percorsi di formazione o lavorativi all’interno e/o all’esterno del carcere, infatti, all’uscita da questo, mostrano una probabilità di recidiva (cioè di commettere altri reati) di gran lunga inferiore rispetto a coloro che hanno vissuto inerti la vita carceraria; su questo ci sono precisi dati e statistiche.
Anche per questi motivi ad alcune categorie di detenuti viene data la possibilità non di un “lavoro” comunemente inteso, ma di poter svolgere percorsi formativi e lavorativi attraverso i quali possano riattivare il loro senso di utilità, ritrovare la capacità di responsabilizzazione, la propria dignità di esseri umani e prepararsi all’uscita, momento altrettanto difficile e traumatico proprio perché le nostre carceri sono sovraffollate prevalentemente da persone che hanno alle spalle vissuti di grave e dolorosa sofferenza, non hanno nessuno fuori che li aspetta, hanno compiuto reati di piccola entità perché tossicodipendenti o per sfuggire a povertà e guerre come gli stranieri. Per questo dobbiamo avere il coraggio, per alcuni reati, di affrontare il tema delle misure alternative al carcere anche in un’ottica di giustizia riparativa nei confronti della comunità offesa, quandanche in Italia ci siano recenti e incoraggianti esperienze di giustizia riparativa tra vittima e reo.
La questione carceraria è anche effetto di un sistema penale e processuale che annaspa e che continua a perpetuare una visione carcerocentrica: in Italia sono circa 3.500 i reati punibili con il carcere, mentre questo dovrebbe essere l’estrema ratio qualora altre pene non abbiano funzionato. L’Inghilterra, che pure non ha “un’emergenza carceri”, ha deciso di puntare sulla riabilitazione dei detenuti.
La richiesta di “più carcere”, è una rottura drammatica dei legami di solidarietà sociale verso i più deboli che, peraltro, genera altra criminalità laddove, invece, si vorrebbero riparare e ricucire le fratture che questa ha inferto al tessuto sociale. Tutti noi, se non vogliamo cadere nell’ottica sterile della “vendetta”, abbiamo bisogno di interrogarci su questi temi, pena un fallimento non solo del nostro stato sociale, ma della nostra intera comunità.

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