Int. a R. Barbera - Ma quale Grand Hotel, i detenuti fanno la fame

Dalla Rassegna stampa

Quasi 30 anni di carcere. Praticamente un ergastolo. L'ergastolo volontario di chi ha preferito la prima linea alla scrivania. Come Rita Barbera, direttrice del carcere palermitano dell'Ucciardone che oggi ospita 600 persone. I posti regolamentari sarebbero 450 ma una sezione è in fase di ristrutturazione e altre due sono inagibili. I detenuti le scrivono che hanno fame perché il cibo non basta. La frustrazione è tanta e forte è il rischio di abituarsi alla sofferenza altrui, dal quale si difende cercando di continuare a sentirla sulla propria pelle. Dopo la laurea in Giurisprudenza s'immaginava magistrato ma oggi, dopo tanti anni trascorsi a dirigere prigioni, non riuscirebbe mai a mandare qualcuno in galera, convinta com'è che la detenzione debba essere l'ultima strada da percorrere. È invece diventata una risposta al disagio sociale e le nostre carceri "discariche umane" dove regna la povertà assoluta. La soluzione, secondo Rita Barbera, non è costruire nuove strutture, ma una radicale riforma che eviti il carcere a coloro ai quali non servirebbe. E che sono la maggior parte di quelli che oggi stanno dentro.
 
Come si è avvicinata al mondo penitenziario?
È accaduto per caso, come tutte le cose importanti della vita. Mentre studiavo per il concorso di magistratura ho provato quest'altro insieme ad alcuni colleghi che poi sono diventati tutti direttori di istituti penitenziari. Oggi lo ricordiamo ridendoci su, allora ci prendevamo in giro a vicenda dicendo che stavamo andando a fare un concorso per "aguzzino capo". Abbiamo affrontato quella prova con un po' di ironia, ma quando ho vinto il concorso mi sono fatta subito coinvolgere da questo lavoro. Ho preferito il carcere agli uffici e ad altre opportunità meno scomode e non mi sono mai pentita. È un mestiere che mi è sempre piaciuto e continua a piacermi ancora oggi, dopo quasi trent'anni di camera.
 
Quanti anni aveva quando ha cominciato?
Ventotto.
 
Il primo incarico?
Al carcere di Panna come vicedirettore. Ma dopo soli nove mesi sono andata a dirigere il carcere Marsala e dalla Sicilia non mi sono più mossa, tranne che per un incarico di un anno a San Gimignano. Sono stata all'Ucciardone da vicedirettore e prima di tornarci anni dopo, come direttore, sono stata a Termini Imerese, al Pagliarelli, che è l'altra grande casa circondariale di Palermo, e a Castelvetrano. Ho anche fatto un'esperienza al provveditorato regionale, ma breve. Ho chiesto io stessa di venire qui all'Ucciardone perché il lavoro d'ufficio non mi piaceva, così ho preferito lasciare...
 
E tornare sulle barricate...
La prima linea è stressante, ma è un lavoro che arricchisce professionalmente e non solo.
 
In trent'anni di esperienza com'è cambiata la sua visione del carcere?
Ho cercato di non cambiarla. Di conservare quella "freschezza" che si ha all'inizio di una carriera come la mia. E che ti consente di guardare a un atto di autolesionismo come a un fatto sempre grave e impressionante. Ho chiesto a me stessa di mantenere questa sensibilità. Il cinismo, che alcune volte può derivare dal mestiere, non aiuta. Bisogna sempre tener presente che abbiamo a che fare con delle persone e che qualunque segnale di sofferenza merita attenzione. Se ci si abbandona a una quotidianità che è fatta di tanti gesti di sofferenza, senza sentirne più nessuno sopra la propria pelle, si può anche perdere la voglia di fare questo lavoro.
 
C'è il rischio di abituarsi alla sofferenza dei detenuti?
Sì. Anche come forma di autodifesa. E ovvio che dovendo star qui ogni giorno non ci si può far trascinare troppo, però non si dovrebbe smettere di coglierne la portata e il valore.
 
Com'è riuscita a difendersi dall'abitudine?
Davanti all'autolesionismo e ad altri comportamenti estremi ho continuato a interrogarmi sulle ragioni che spingono una persona a compiere un gesto simile. Cerco di non fermarmi alla superficie dell'evento, ma di andare più a fondo.
 
L'emergenza genera omologazione e si finisce per trattare i detenuti come fossero tutti uguali...
Purtroppo. È vero però che esiste un'omologazione sociale. Gli istituti italiani sono pieni di "rifiuti della società", migliaia di persone che il territorio non riesce a gestire adeguatamente. Tra questi c'è ovviamente chi ha commesso reati gravi e che quindi è di nostra "competenza", ma il resto, che rappresenta la gran parte della popolazione detenuta, non è responsabile di reati di allarme sociale tali da ritenere il carcere una risposta efficace.
 
Ricordava il caso di un uomo condannato a otto anni di reclusione per vendita di merce contraffatta...
Prima dei cd masterizzati, vendeva le cassette e prima ancora viveva con il contrabbando di sigarette. La sua percezione era di fare un mestiere, proprio come io dirigo carceri e lei fa la giornalista. Questa persona sconta il carcere inutilmente, non comprende quale sia l'impatto sociale del suo reato perché ritiene di non fare altro che il proprio lavoro, né l'istituzione penitenziaria è in grado di fargli capire che ha sbagliato. Credo che in casi come questo la detenzione sia una pena troppo grave. Il carcere, anche quello più aperto, è sempre duro, perché la vera tortura è la perdita della libertà personale. L'uomo non .è fatto per essere recluso, è una condizione contro natura difficile da sostenere. Per questo penso che il carcere dovrebbe essere limitato alle persone che hanno realmente creato un grave allarme sociale e sulle quali potremmo intervenire con maggiore efficacia se non dovessimo usare le poche risorse disponibili anche per tutti gli altri.
 
Si confonde quindi il disagio sociale con l'allarme sociale?
Due concetti talmente lontani che non si dovrebbero neanche mai incontrare. Il disagio richiede soluzioni sociali, non il carcere. Eppure è quello che accade. L'Ucciardone è un istituto di media sicurezza, non ci sono detenuti per mafia, ma solo detenuti comuni. Se si facesse una riforma che guardasse al carcere come ultima risposta possibile, la maggior parte di loro non starebbe qui dentro.
 
Il territorio e il contesto sociale come influiscono sul carcere?
La popolazione detenuta qui è molto povera. La crisi economica si fa sentire e chi proviene da famiglie in difficoltà vive ancora peggio la detenzione. Ci sono poi gli extracomunitari, senza alcun supporto familiare, che hanno come prospettiva futura nient'altro che l'espulsione. Queste persone hanno ben poco da perdere e sono i detenuti più difficili da mantenere. Un uomo senza speranza non è gestibile e loro sono solo dei disperati.
 
Come si comporta un uomo senza speranza?
Stamattina mi è arrivata questa lettera: "Ill.ma dott. Barbera, vengo a lei con questo mio scritto per chiedere un vostro aiuto. Pregandola umilmente le chiedo di fare qualcosa per me, per avere un sostegno economico dalla Caritas. Mi trovo in condizioni disperate, vivo le mie giornate chiedendo sempre agli altri e questo mi fa stare male. Essendo extracomunitario e trovandomi distante dall'affetto dei miei cari non ho possibilità di fare colloqui e così non posso avere indumenti, non posso mangiare correttamente perché il cibo che ci passa l'amministrazione è poco. A volte giro a cercare mangiare dagli amici della sezione, loro si mettono a disposizione ma mi fa soffrire chiedere le cose o del cibo”. È questa la quotidianità. Non riusciamo a dare lavoro a tutti per sostenersi e ci sono pochissimi soldi per il sussidio. Segnalerò questo detenuto alla Caritas, gli darò 10,20 euro come sussidio dell'amministrazione, giusto per permettergli di comprare qualcosa... Insomma ci arrangiamo. Ma la frustrazione è tanta.
 
L'ex Grand Hotel Ucciardone oggi è un carcere “no logo”. Perché avete bandito i vestiti firmati?
Sono disposizioni arrivate da Roma per tutti gli istituti, io però ho sempre cercato di evitare che circolassero. In un carcere sono le cose più piccole a fare la differenza e il peso che un detenuto può avere sugli altri dipende anche da queste. Le firme possono essere utilizzate per creare posizioni di supremazia rispetto a chi non ha nulla, che non è mai una cosa positiva. Ho sempre vietato ai detenuti di ricevere indumenti di stoffe pregiate. Lei citava il "Grand Hotel", ricordo che si raccontava di un Buscetta con la vestaglia di seta ai passeggi... Sono segnali, che non è il caso di far arrivare. Comunque non è stato difficile vietare le cose firmate, non ce n'erano poi tante.
 
I detenuti come hanno reagito?
Si sono lamentati.
 
Avete spiegato loro le ragioni di questo divieto?
La motivazione si capisce, non ce n'è stato bisogno.
 
A volte i detenuti conoscono appena le regole e non ne sanno i motivi. Una spiegazione' non aiuterebbe a digerire meglio ciò che scandisce la loro vita quotidiana?
Manca una comunicazione efficace. Il regolamento penitenziario è preciso, quello che forse non si conosce sono le piccole cose. Ecco perché sto facendo stampare delle guide per aiutare i detenuti a orientarsi nella vita quotidiana.
 
Non è proprio nelle piccole cose che risiede il potere maggiore di un direttore?
Diciamo di sì, ma è un potere se si ha la possibilità di dire sì o no. Di questi tempi siamo costretti a dire troppi no, siamo impotenti rispetto a delle cose che mancano materialmente, come il cibo. Allora non è più un potere, è necessità.
 
Però potete decidere molto della vita quotidiana di un detenuto: cosa poter portare ai figli in occasione del colloquio, ad esempio, o quanti indumenti possono ricevere dall'esterno...
Purtroppo questa discrezionalità c'è. Le diversità sono sempre antipatiche quando si parla di restrizioni, di piccole cose che all'interno di un istituto di pena diventano molto più grandi e fanno la differenza, quando si vive di attimi come il colloquio settimanale. È duro dipendere dalla volontà di altri e il carcere ne è l'esempio estremo, perché sei chiuso in una stanza, non ti puoi muovere e puoi uscire solo se qualcun altro ti apre. Ci sono già restrizioni pesanti da sostenere, ma che fanno parte della pena, a cui si sommano queste piccole frustrazioni quotidiane.
 
Essere donna l'ha aiutata a mantenere viva la sua sensibilità verso il disagio che si vive in carcere?
Non essendo mai stata uomo, non lo so (ride). Conosco colleghi uomini molto attenti, come me, più che sensibili. L'attenzione è un dovere al di là della propria sensibilità. Forse noi donne siamo più sensibili, ma non è indispensabile per fare il nostro lavoro in maniera corretta. Bisogna applicare la legge e la legge prevede che si offra ai detenuti l'opportunità di cambiare la loro vita e il modo di vederla, che la pena sia umana e i loro diritti siano considerati come sacrosanti e da difendere.
 
Dopo tutti questi anni trascorsi a dirigere carceri, se domani vincesse quel concorso di magistratura che magistrato sarebbe?
Non potrei mai essere un giudicante. Mi verrebbe molto difficile giudicare con questa esperienza. Potrei essere un fallimentare, non manderei le persone in galera, ma al massimo potrei dichiararle fallite (ride ancora).
 
E se invece domani fosse nominata ministro della Giustizia?
Non vorrei. In questo momento mi sembra una poltrona scottante. Ha troppe cose da fare questo ministro per invidiarlo, a partire da una radicale riforma dell'individuazione delle fattispecie penali punite col carcere. È davvero impellente, c'è troppa gente per la quale questo carcere è inutile.
 
Perché si fa tanta fatica a pensare di restringere l'area della penalità?
È una riforma che rischia di essere impopolare e la politica insegue il consenso. Finché i politici si lasceranno condizionare dalla paura non si potrà mai fare una riforma seria, ci sarà sempre chi dice "mettiamo tutti gli extracomunitari su un'isola sperduta, oppure i tossicodipendenti, perché ci danno fastidio". Sono entrata nell'amministrazione in un momento in cui si dibatteva sul mondo della pena in una prospettiva di apertura e sperimentazione. Si discuteva di affettività in carcere, un argomento che oggi sembra lunare. Ma quelli erano i tempi della legge Gozzini, c'era una visione diversa, si parlava del "carcere della speranza". C'è bisogno di un grande sforzo culturale, oggi nessuno rassicura sull'opportunità di cercare strade alternative. Costruire nuove carceri non è una strada che porta lontano, bisognerebbe trovare il personale e nuove risorse economiche, aumenterebbero i problemi. Bisogna riflettere su chi oggi finisce in carcere, per puntare alla rieducazione e al reinserimento previsti dalla legge. Obiettivi impegnativi che in questa situazione di emergenza non possiamo garantire.

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