Giustizia: un carcere più dignitoso serve a tutti…

Dalla Rassegna stampa

Vorrei qui semplicemente suggerire alcune riflessioni desunte dalla mia personale esperienza. Ora, io nel carcere di Bolzano non ci sono mai entrata, ma in altre case circondariali sì: ho seguito per molti anni progetti di Teatro in Carcere affiancando il lavoro di una donna eccezionale come Teresa Pomodoro, purtroppo scomparsa cinque anni fa.
Ho preso parte a percorsi culturali e di formazione teatrale con i detenuti delle case di reclusione di Opera e San Vittore a Milano, entrando perfino nella sezione di Alta Sorveglianza, a Opera, e nel famigerato Terzo Raggio, a San Vittore, a seguito di un’intellettuale che ha sempre creduto nella forza positiva trasformante della cultura.
Ne ho portato a casa la ferrea convinzione che il carcere deve poter essere un luogo dove ritrovare dignità, non uno spazio di degrado e umiliazione. Perché ciò che resta dell’integrità di un essere umano è messo in serio pericolo dall’essere vilipeso e umiliato. Penso che molti non si rendano conto davvero di che cosa sia, un carcere. Un ambiente in cui esseri umani - che devono scontare una pena, d’accordo - spendono un giorno dopo l’altro in una reclusione che, se non trova il modo di avere in sé una propositività, provoca nell’individuo lacerazioni peggiori, e, spesso, peggiori aberrazioni, di quelle che vi sono entrate; perché toglie speranza, fomenta rancori, immeschinisce l’animo.
Non possiamo dimenticare che molti detenuti hanno alle spalle vissuti altamente traumatici, che non sono stati in grado di affrontare e che sono sfociati nella delinquenza. Il recupero umano e sociale passa attraverso l’elaborazione e la metabolizzazione del passato e la speranza di potere, un giorno, condurre una vita “altra”. La cultura veicola valori che, dove c’è un minimo di terreno fertile, anche se mal curato, possono germogliare.
Con la cura, appunto. Se è vero che la vita non finisce quando si varcano le sbarre, è anche vero che da tali sbarre non si dovrebbe uscire, a fine pena, come rifiuti della società civile. Sono molte le fragilità psicologiche che derivano dal non avere più un posto nella società. Il reintegrarsi in una ritrovata “normalità” deve passare per una formazione, una trasformazione. Altrimenti la reclusione non ha senso e si ritorna alla logica delle colonie penali, delle deportazioni, alla logica dei Javert. Già la dicitura “istituto di pena” fa venire i brividi e richiama alla mente gironi danteschi. Non il Purgatorio, proprio l’Inferno.
È necessario, invece, restituire progettualità, dare un senso nuovo all’esistere e al collaborare. Dopo quattro ore lì dentro, all’uscita avevo la sensazione di essere come dissociata, disincarnata. Figuriamoci viverci, o lavorarci a tempo pieno. Perché il carcere è duro anche per chi ci opera; ci si scorda troppo spesso che pure la giornata della polizia penitenziaria si dipana tra quelle mura. Non è facile. Quando si investe in dignità di una struttura come un istituto carcerario, si investe in dignità umana e questo può portare più frutti, a livello sociale, di quanto si pensi. Si tratta di un sano pragmatismo unito al rispetto per l’esistenza, per la persona.
Di alcuni ex detenuti ci è capitato di seguire i primi passi fuori dall’istituto, di raccogliere le loro impressioni sul reinserimento nel consesso civile. Posso testimoniare che il lavoro all’interno, assieme psicologico e culturale, non è stato vano, soprattutto in molti giovani, per i quali ha rappresentato un reale punto di svolta nella coscienza di sé e del proprio futuro possibile. Ecco perché è fondamentale che una casa di reclusione non venga condannata ad essere un non-luogo, ma uno spazio adeguato, per decoro ed infrastrutture, al recupero del proprio valore come individui, al recupero del senso morale, al recupero della vita.
Il luogo è importante, non perché debba essere un hotel di lusso, ma a misura di essere umano; semplice, se vogliamo, ma non degradante. Il problema è che costa. Ma il timore è che costi di più, a lungo termine, rimanere ancorati al concetto, senza speranza, di “istituto di pena”.

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