Giustizia: la territorialità pena detentiva è un principio irrinunciabile

Dalla Rassegna stampa

Nel nostro Paese, lo Stato non rispetta le sue leggi e si accanisce sui più deboli. È il caso della territorialità della pena cioè l’opportunità per un detenuto di scontare il suo debito il più possibile vicino al proprio ambiente di origine. Si tratta di un principio democratico che è stato sancito per contemperare due aspetti inscindibili: quello giuridico, legato alla Carta costituzionale, e quello sociale, rispettoso dell’equità e appartenenza.
La Costituzione stabilisce infatti che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. Le norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle pene indicano infatti come finalità delle misure privative della libertà la loro funzione rieducativa per il reinserimento sociale di chi ha sbagliato.
Rispettare la territorialità della pena significa quindi riconoscere al sistema carcerario il ruolo per cui è stato istituito secondo i dettami della Costituzione: la rieducazione. Da diversi anni invece alla funzione riabilitativa è stata sostituita quella vendicativa. La società offesa punisce allontanando chi sbaglia. La conseguenza è doppiamente negativa. Da un lato si spendono denari pubblici per mantenere in un’Istituzione totale l’individuo, dall’altro lo si sradica dal contesto sociale sicché, una volta in libertà, spesso ripete l’errore.
I contatti con l’ambiente esterno invece sono determinanti sotto diversi aspetti. Innanzitutto garantiscono due diritti fondamentali: l’affettività e l’esercizio della difesa. Un cittadino privato della libertà, considerato innocente fino all’ultimo grado di giudizio, allontanato dal suo contesto socio-economico e culturale, perché trasferito in un’altra regione, subisce una forte limitazione di entrambi. Non a caso dunque la legge sull’ordinamento penitenziario stabilisce che i trasferimenti dei detenuti devono essere disposti favorendo “il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie”, anche perché i familiari, specialmente i figli, non sono in alcun modo responsabili di eventuali reati commessi dai loro genitori. Anche loro vantano dei diritti come quello di poter avere relazioni affettive con il genitore recluso.
La condizione di un cittadino sardo privato della libertà è ancora più grave e simile a quella di un detenuto trasferito nell’isola dal continente. Raggiungere un luogo diverso comporta una serie di gravi conseguenze. La famiglia non può effettuare i colloqui perché le distanze risultano proibitive. È necessario infatti non solo disporre del tempo ma, in molti casi, dover pernottare almeno una notte affrontando costi consistenti per poter aver un incontro di qualche ore.
Proprio per la condizione di insularità, nel febbraio 2006 è stato sottoscritto dalla Regione e dallo Stato un protocollo d’intesa con cui è stato stabilito di favorire il rientro in Istituti della Sardegna dei detenuti di origine, residenza o interessi nel territorio sardo, tenendo conto in particolare del luogo di dimora familiare. Ciò risponde all’esigenza concreta di porre il detenuto nelle condizioni più favorevoli per il suo reinserimento e quindi per il suo recupero evitando alla famiglia lunghi, faticosi e dispendiosi viaggi, addirittura impossibili quando le condizioni economiche sono precarie e quando si tratta di anziani e/o bambini. Il protocollo e la legge non sono però rispettati.

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