Giustizia: cancellare l’ergastolo non è un tabù

Parlare di carcere e di pene significa parlare della società in cui viviamo e ancora di più di quella in cui vorremmo vivere. Mi hanno colpito le testimonianze riportate su queste pagine, nell’inchiesta di Michele Brambilla. L’ergastolo “ostativo”, il “fine pena: mai”, l’impossibilità per chi subisce questa condanna di coltivare la speranza, vale a dire il sentimento che forse più di ogni altro permette all’umanità e ai suoi singoli componenti di andare avanti, di proseguire il cammino. Sono andato con la mente alla nostra Costituzione, lì dove dice che le pene devono essere tese alla rieducazione del condannato.
Ho pensato ai protagonisti di quel bellissimo film dei fratelli Taviani, “Cesare deve morire”, e al fatto che la giustizia non può mai, in nessun caso, scivolare nella vendetta. Ho ritrovato alcune parole di Aldo Moro, che un paio d’anni prima di essere sottratto alla vita e alla politica dai suoi carnefici spiegava ai suoi studenti che la pena dell’ergastolo “priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi prospettiva, di qualsiasi sollecitazione al pentimento e al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte”. Sì, credo davvero sia giunto il tempo di affrontare con serenità e saggezza una questione che non ha colore politico, perché riguarda il grado di civiltà che il nostro Paese vuole raggiungere.
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