Giustizia: senza un aiuto, per gli ex detenuti è calvario di solitudine e porte in faccia

Dalla Rassegna stampa

Di solito fanno uscire di galera a mezzanotte, mezzanotte meno un minuto. Questioni burocratiche: la pena - è scritto sul certificato - finisce alle ore ventiquattro.
Chi non ha mai provato pensa a quanto ci si possa sentire inebriati: ah, la libertà... Invece raccontano di un senso di smarrimento: “E adesso che cosa faccio? Non so né dove né da chi andare, e anche se lo sapessi non saprei come andarci: dove lo trovo un biglietto del tram a quest’ora? E se mi fermano senza biglietto e mi risbattono dentro?”. Il “dopo” è una grande incognita. Ho passato una giornata con alcuni uomini usciti dalle Vallette per cercare di capire, per quanto possibile, la vita agra dell’ex carcerato.
Nove di mattina, un bar sotto i portici a Porta Susa. L’uomo che fa colazione con me chiede di limitarsi alle sue iniziali - G.P. - proprio perché il primo desiderio è quello di essere dimenticati dal mondo. Non era un delinquente, ma un giorno la gelosia l’accecò.
Un delittaccio passionale: ha fatto dentro quindici anni ed è totalmente libero dal 2010. “Sono stato a San Vittore, Opera, Rebibbia, in Calabria e infine alle Vallette. San Vittore il peggiore, una bolgia di inefficienza, trasgressione, disordine, in ogni raggio comanda un’etnia: i calabresi, i siciliani, i sardi, gli albanesi, i marocchini. L’unica legge è il controllo del territorio.
Alle Vallette c’è il polo universitario e ho potuto laurearmi. Soprattutto, ho incontrato volontari che si sono presi cura di me”. “La cosa fondamentale è uscire gradualmente e con una compagnia. Se quando esci sei solo, torni a rubare o spacciare; e se non lo hai mai fatto prima, cominci a farlo. Se invece hai qualcuno che ti dà da dormire e da lavorare, ti salvi.
Mi creda: nessuno ha interesse a fare una scemata. Io sono stato accompagnato. Ma siamo una percentuale bassissima: gente che deve ringraziare la Caritas diocesana, il suo direttore Pierluigi Dovis, il cardinal Poletto”.
Gli chiedo se resta qualcosa di positivo, della vita in carcere: “Il senso di solidarietà. Dentro è molto più forte che fuori. Quel muro è un simbolo di divisione: non solo di società ma anche di anime”. Alle 11,30 prende il treno per andare a lavorare: mi mostra con orgoglio la sua busta paga, mille euro netti: per lui sono la felicità.
Ore tredici, una pizzeria di via Cecchi. Anche l’uomo che pranza con me chiede un semi-anonimato, perlomeno per il cognome: “Chiamami Roberto il Vecchio, in carcere mi conoscono così”. Ma la sua storia è unica e difficilmente la si può confondere con altre. Roberto il Vecchio è un veneto di settant’anni che ha passato in carcere gli ultimi sedici. Gli hanno fatto un po’ di sconto: la condanna, per narcotraffico, era stata di ventiquattro anni.
Quest’uomo colto, poliglotta, elegante, affascinante, sempre sorridente, sposato con una bellissima cubana, quest’uomo che in carcere si è laureato in scienze politiche con una tesi intitolata in latino sulla fine del potere temporale dei papi e che ha un’altra quasi-laurea in teologia, quest’uomo che il 24 novembre 2010 ha parlato della condizione dei detenuti a San Pietro addirittura accanto a Papa Ratzinger, insomma quest’uomo da film era un più che benestante imprenditore veneto trasferitosi a Miami.
Commerciava in marmi e un giorno si innamorò di una cava di lapislazzuli in Colombia. Quando andò a comprarla, gli chiesero: ma lei che va spesso in Italia, non potrebbe portare là un po’ di cocaina? Fu così che Roberto diventò uno “specialista di sistemi”. Spiega: “Vuol dire che inventavo i sistemi per nascondere la droga. La mettevo, ad esempio, all’interno dei fili elettrici. Per due anni andò bene. Poi, il mio socio mi tradì”.
Quando lo arrestarono, gli trovarono centoventi chili di cocaina: ma al processo l’accusa contestò un traffico complessivo di 1.575 chili. Gli chiedo che cosa gli fece fare una simile fesseria, visto che di soldi ne aveva già. “Ne volevo di più”, risponde: “Quando ho visto le prime tre valigie piene di dollari, ho perso la testa”.
Dice che adesso ha capito: “Allora mi auto-giustificavo. Dicevo che in fondo non mettevo le mani in tasca a nessuno: erano loro che volevano comprare la cocaina. Ma era pur sempre vendere un paradiso artificiale, e questo è sbagliato per Dio e per gli uomini. Quando sei dentro, cambi. Ho capito il male che ho fatto a mia moglie e ai miei figli”.
I figli sono due. Vivono in Florida. Uno è poliziotto, l’altro agente dell’Fbi: “Per reazione al padre”, dice lui. Roberto è definitivamente fuori da due mesi e si arrangia come può: “Lavoro a cinquecento euro al mese. Quando esci trovi solo le organizzazioni di carità ad aiutarti. Tu cerchi un lavoro, ti chiedono che cosa hai fatto prima, tu glielo dici e loro ti rispondono “vedremo”. Al ventesimo vedremo riprendi a spacciare coca”.
Ore quindici e trenta, nuova stazione Dora. Incontro Giovanni Ferina. È uscito nel 2010. Aveva preso, per omicidio, sedici anni e - bizzarrie delle sentenze - duecentomila lire di multa, l’equivalente di tre o quattro multe per sosta vietata di allora.
Racconta di essere un esperto di “uscite” dal carcere: “Prima di questa condanna a sedici anni ero stato dentro più volte per piccoli reati. E quindi so che cosa vuol dire uscire. Che cosa fai quando esci? Una volta ho provato a lavorare: autotrasportatore in proprio.
Ma siccome il furgone costava quaranta milioni, me n’ero procurato uno io: puoi immaginarti come. Quando mi hanno scoperto è finito il film”. Paradossalmente, dice, “quando sei dentro per una pena lunga è più facile essere seguito”.
A lui è successo così, al polo universitario delle Vallette. “Di tutti quelli di noi che, dentro, hanno potuto studiare, nell’arco di quindici anni solo uno, dopo essere uscito, è rientrato in carcere”. Quella di Ferina è una storia a lieto fine: oggi lavora a tempo determinato come collaudatore di prototipi di autoveicoli.
Ore diciassette e trenta, via Corte d’appello, palazzo dell’avvocatura del Comune. Qui sta facendo il tirocinio Marino Sacchetti, ex carabiniere, condannato per tentato triplice omicidio. Ha fatto in carcere quattordici anni. Dal 14 dicembre scorso è totalmente libero. Il prossimo 21 giugno si laurea in giurisprudenza.
“Sono fortunato perché uscendo ho usufruito del protocollo di intesa con il Comune e grazie all’Ufficio Pio del San Paolo ho una borsa-lavoro di 650 euro al mese. Non sono assunto e quindi non prendo uno stipendio da un ente pubblico: mi sto solo preparando per trovare un lavoro”.
È grato alle persone che lo hanno seguito in carcere negli ultimi anni: “Uscire senza accompagnamento è terribile. E se in carcere non si dà la possibilità di studiare e di lavorare, è difficile costruire un ponte per il dopo. Ci si riempie tanto la bocca con la parola sicurezza, ma la sicurezza la si costruisce anche dando la possibilità, a chi esce dal carcere, di non sbagliare più”.
Per arrivare fin qui, in via Corte d’appello, mi avevano dato un passaggio in auto Ferina e Roberto il Vecchio. Stavo per scendere a Porta Palazzo quando mi hanno bloccato: “Questa è una brutta zona, rischi che ti fanno il portafoglio. Ti accompagniamo noi che questi qua li abbiamo conosciuti in carcere”. Mi resta così, con questa scorta imprevista, la strana sensazione di aver conquistato qualcosa, diciamo un rapporto, con uomini che in fondo chiedono solo di non essere lasciati soli.

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