Giustizia: lavoro nelle carceri e professionalità da “sprigionare”

Imparare un mestiere è un antidoto efficace alle recidive e ogni milione di euro investito ne rende nove allo Stato. Ancora troppo pochi i detenuti coinvolti. Servono più risorse per la legge Smuraglia.
Investire nel futuro dei detenuti si può e si deve. Il lavoro per chi è costretto dietro le sbarre è l’unico vero deterrente alla recidiva di reati. Chi lavora non torna a delinquere, chi non ha lavorato nell’80% abbondante dei casi torna nel mondo peggiorato.
Oggi i detenuti lavoratori nei nostri penitenziari regolarmente inquadrati sono meno di 900, quelli “articolo 21” e ì semiliberi sono in tutto 2.200. In totale si arriva a circa 14mila con chi è impegnato nei “lavori domestici” (pulizie, manutenzione, lavanderia, mense) alle dipendenze del Dap e non percepisce un vero e proprio stipendio, ma un “corrispettivo” in media di 230 euro. Insomma, cifre irrisorie quelle dei lavoratori rispetto al numero totale di reclusi: 66mila (a fronte di una capienza di 47mila). Siamo il paese più sovraffollato d’Europa: ogni cento posti nelle celle italiane sono stipati 142 detenuti, la media Ue è di 99,6.
Il tema del lavoro nelle carceri è stato rilanciato grazie a un provvedimento a fuma dell’ex ministro Severino di importanza rilevante: 16 milioni dì euro (una tantum) per rifinanziare la legge Smuraglia, che regola la materia del lavoro dietro le sbarre e le sinergie con il privato. A dicembre il rifinanziamento era rimasto fuori dalla manovra economica.
La Severino ha realmente recuperato quanto possibile, ma il rischio è che resti un episodio se non si rimette mano alla normativa, aumentando e mettendo a regime le agevolazioni a chi decide di investire nel lavoro in carcere.
Il provvedimento Severino contiene due importanti novità: il credito d’imposta sulle assunzioni passato da 516 a 700 euro per detenuto e la defiscalizzazione al 100% (prima era all’80%). Resta però aperto il capitolo delle innovazioni per attirare nuove imprese.
Nel frattempo, il Dipartimento di amministrazione penitenziaria sta effettuando una ricognizione, istituto per istituto e provveditorato per provveditorato, per mappare la situazione delle attività in corso nelle carceri così da poter riprogrammare la distribuzione delle risorse.
Oggi le allocazioni sono ancora determinate da quanto deciso nel Duemila, in lire, al momento del varo della legge. Da allora permangono disparità di trattamento tra regione e regione: là dove esistevano già esperimenti di sinergia con il privato sociale sono stati previsti maggiori fondi, rispetto a realtà meno dinamiche, che oggi continuano a ricevere risorse con il contagocce. L’obiettivo del Dap è quintuplicare il numero dei lavoratori detenuti.
Spiega Nicola Boscoletto, a capo del consorzio Giotto di Padova, tra i più autorevoli operatori di lavoro per ì detenuti: “L’ex ministro ha fatto ciò che ha potuto, oggi bisogna rimettere mano alla legge Smuraglia e agevolare la creazione di nuove esperienze. Occorre dare stabilità ai finanziamenti secondo parametri adeguati in base a esigenze maturate in 13 anni di attività, perché chi investe ha bisogno di sapere che ogni anno i progetti saranno rifinanziati.
Un detenuto che lavora smette di essere un costo per la società, perché con lo stipendio paga da sé le spese di mantenimento in carcere e gli indennizzi alle parti offese: è un lavoratore che riacquista dignità e progetta il proprio futuro”. Finora il finanziamento alla legge Smuraglia è rimasto fermo a 4,6 milioni dal 2000.
Nei penitenziari il lavoro con il maggior ritorno in termini di recupero del detenuto è quello che crea professionalità per il dopo pena. La sensazione è che sono ancora troppo pochi i “veri” lavoratori, quelli che fuori dalle sbarre potranno portare una professionalità definita e spendibile, “Il carcere - conclude Boscoletto - appare come un campo lasciato incolto per troppo tempo. Ogni milione investito nel lavoro in carcere ne rende nove allo Stato: con otto milioni che possono essere restituiti in servizi ai cittadini. Non è troppo tardi per cambiare rotta”.
Best practice. Da Torino all’isola di Gorgona
Pane, biscotti, biciclette, vino, birra, abiti, antiquariato, ma anche cali center e servizi di ogni tipo dal turismo alla manutenzione dei giardini. Non mancano le best practice tra le decine di iniziative che in tutta Italia coinvolgono i detenuti. Nel carcere le Vallette di Torino Piero Parente ci racconta come è nata la cooperativa Ecosol, che ha dato vita al marchio “Libera mensa”, che dà lavoro stabile a 34 detenuti.
Specializzata in catering per piccoli e grandi eventi, oggi produce anche ristorazione di qualità: “Siamo nati nel 2005, per gestire la cucina centrale del carcere, occupando 22 detenuti. Dal 2008 abbiamo avviato un’attività di catering all’esterno che ci ha fatto conoscere e apprezzare. A breve Liberamensa aprirà un punto vendita in centro città e un ristorante. Il valore aggiunto è la solidarietà, ma l’ingrediente di base è il lavoro dì persone formate che non sapevano cucinare e che nel tempo sono diventati professionisti in grado di inserirsi nel mondo del lavoro dopo la fine pena”. Oggi alle Vallette operano otto cooperative che offrono vari servizi e creano occasioni di formazione e di inserimento professionale per i detenuti.
A Milano dal 2007 opera la “Cascina Bollate”, che vede impegnati detenuti in attività di giardinaggio, di vendita di piante e fiori. Il concetto di base è un carcere come istituzione trasparente, vi sono corsi di giardinaggio per le persone “libere” e sinergie con il territorio. Le rose di Bollate, per esempio, sono note agli appassionati che le comprano da tutto il mondo. I lavoratori sono formati e pagati regolarmente e l’esperimento è diventato una realtà riconosciuta a livello internazionale. A Padova c’è il consorzio sociale Giotto che ha ideato il marchio “ Officina Giotto”. Dalla volontà di Nicola Boscoletto e dei suoi soci, dietro le sbarre della casa di reclusione Due Palazzi sono nate biciclette per grandi marchi, sono stati formati operatori per servizi di cali center oggi attivi al Cup dell’Ulss di Padova, si assemblano pen drive, impiegando 125 detenuti che producono reddito e mantengono così la loro famiglia.
Vino bianco per le carceri: è il progetto Frescobaldi per il penitenziario di Gorgona. L’azienda vinicola ha lanciato un progetto di formazione per ì detenuti, celebrato nei giorni scorsi dal ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, come un simbolo per la realtà carceraria italiana. La Gorgona è un gioiello naturalistico che ospita appena una settantina dì detenuti,
abituati a lavorare all’aria aperta. Una vigna già esisteva; ora si forma il personale. Racconta Lamberto Frescobaldi: “Non è un interesse commerciale, sull’isola è un ettaro, sono 2.500 bottiglie. Però per chi produce vino affrontare una nuova sfida è sempre stimolante”. Oltre al vino si faranno olio e formaggi per i ristoranti fiorentini.
A Roma la coop Men At Work ha dato lavoro nel campo della ristorazione e del recupero dei mobili a decine dì detenuti dal 2003, anche se poco più di 800 lavoratori sono ancora troppo pochi per una popolazione carceraria che supera le 66mila unità.
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