Giustizia: le carceri raccontate da chi le abita… operatori sociali, agenti e detenuti

Patrizi (Psicologa Giuridica): superare esclusività pena detentiva
“Sono, allo stato attuale, il principale strumento di reintegrazione attiva della persona condannata. Raccomandazioni e direttive europee le indicano come strumenti di contrasto alla recidiva. Esse realizzano il criterio di certezza della pena, coniugando la condanna detentiva inflitta con l’esigenza di una sua modulazione in funzione del reinserimento”.
Così Patrizia Patrizi, professoressa ordinaria di Psicologia sociale e di Psicologia giuridica all’Università di Sassari, spiega all’Agenparl cosa sono le misure alternative note nel nostro sistema penitenziario come legge 354.
Nascono nel 1975 e vengono perpetuate ed aggiornate dalla “legge 689/1981 - continua la prof.ssa Patrizi - che ha previsto la possibilità di sostituire, già al momento della pronuncia della sentenza di condanna, le pene detentive brevi con sanzioni quali la semidetenzione e la libertà controllata e successivamente, dalla legge Gozzini (L. 663/1986), che ha ampliato i margini di accesso alle misure alternative. Poi è la legge Simeone-Saraceni (L. 165/1998), ad incrementare le ipotesi di fruibilità delle misure alternative consentendone l’applicazione, in caso di condanne a pene brevi, direttamente dallo stato di libertà, nell’evidente obiettivo di non interrompere processi riabilitativi già avviati)”.
Secondo la dott.ssa Patrizi “il piano carceri adottato dal nostro Paese ha continuato a privilegiare il criterio della reclusione: con la creazione di nuovi istituti penitenziari, l’adeguamento strutturale di quelli esistenti, l’incremento organico della custodia. È rimasto sospeso, invece, il filone delle riforme tese a ridurre la necessità del ricorso al carcere. A questo credo sia opportuno dedicare nuova e più costante attenzione”.
Alla domanda su come impostare, allora, una revisione, la prof.ssa risponde: “Io inizierei a rivedere l’impianto sanzionatorio. Si tratterebbe, intanto, di superare l’esclusività della pena detentiva prevedendo, oltre alla depenalizzazione dei reati minori, misure coerenti con la finalità di un riequilibrio sociale realizzato attraverso formule riparative e conciliative.
Probation processuale, lavoro in favore della comunità, mediazione, secondo quanto indicato anche dalle disposizioni internazionali in materia, estensione agli adulti della sospensione del processo e messa alla prova attualmente prevista nel settore minorile”: sono queste le misure che consiglia la Psicologa giuridica per migliorare l’urgente situazione carceraria attuale.
“È necessaria, però, - ribadisce la prof.ssa - la consapevolezza che la misura sostitutiva o alternativa alla detenzione non ha in sé potere di ri-orientamento di percorsi di vita se non adeguatamente supportata con la sensibilizzazione e la preparazione sociale e del detenuto”.
Non avrebbero pertanto privilegi a lungo termine le misure straordinarie di amnistia e indulto, in quanto tamponi per un sistema penitenziario che presenta cronicamente le stesse problematiche oramai da anni.
In effetti, la stessa dott.ssa ricorda: “Se si pensa a indulto e amnistia come strumenti di risocializzazione, si corre un grave rischio, le cui conseguenze abbiamo già avuto modo di osservare in occasione dell’ultimo indulto, quando le persone nelle condizioni di fruirne sono state dimesse per pura applicazione della legge, senza che venisse consentito a quelle stesse persone e agli operatori di riferimento di predisporre le condizioni necessarie al ritorno in libertà, sia sotto il profilo psicologico, sia con riguardo alla situazione ambientale, familiare e al contesto sociale di appartenenza”.
“I detenuti messi in libertà per effetto dell’indulto - conclude la prof.ssa Patrizi - sono stati oggetto del peggior ostracismo e l’eventuale reingresso in carcere è stato diffusamente interpretato come fallimento dell’ipotesi rieducativa, dimenticando però che la misura non aveva finalità rieducative, ma di puro sfollamento delle carceri”.
Contro i suicidi occorre task force delle istituzioni
Dall’inizio dell’anno fino ad oggi, si contano 21 suicidi nelle carceri italiane. Altri 55 nel 2012 e quasi 60 nel 2011. Sono i numeri che riporta il centro studi Ristretti Orizzonti, che ogni giorno registra la contabilità del dolore all’interno delle carceri italiane.
“Il suicidio produce in noi pesanti vissuti di impotenza, quella stessa impotenza che la persona ha espresso nella scelta di togliersi la vita. In ogni caso, ne va evidenziata la natura comunicati va: rinuncia, grido d’allarme, amplificazione di quei segnali che non sono stati accolti, che forse non è stato possibile recepire”. Lo spiega Patrizia Patrizi, Professoressa ordinaria di Psicologia Sociale e Psicologia Giuridica all’Università di Sassari.
“Il maggior numero di suicidi si verifica in passaggi critici per il condannato, come possono esserlo l’arresto e l’entrata in carcere. Ma critici sono anche i momenti dell’attesa di giudizio, la condanna e persino l’uscita dal carcere con le connesse pesanti sfide provenienti da un ambiente esterno divenuto estraneo, frequentemente diffidente quando non oppositivo”. Ma come prevenire questo problema urgente?
“Intanto imponendoci di uscire dall’urgenza e dall’emergenza - spiega la prof.ssa Patrizi. “Sembra necessario, preliminarmente, apportare delle modifiche normative che riducano la carcerazione ai casi strettamente necessari; per tutti gli altri, interventi esterni di inclusione. Ciò avrebbe effetti positivi anche sull’ambiente penitenziario. Soprattutto è importante sostenere la persona rispetto alla prospettiva futura e alla costruzione di alternative - aggiunge la professoressa- favorire occasioni di previsione e controllo degli eventi quotidiani come strumento per contenere l’esperienza destrutturante della carcerazione; un contenimento che sappia circoscrivere il tempo della detenzione, impedire che esso si trasformi in una rappresentazione della propria storia e delle progettualità di vita, fino alla rinuncia a una vita priva di progettualità.
A questo è funzionale la proposta di attività che consentano al detenuto un posizionamento attivo, coinvolgimento diretto nella loro definizione attuazione, assunzione di responsabilità”. Nonostante i numeri siano alti, spesso i decessi che si nascondono dietro di essi non sono poi così interessanti per il resto della società. Fanno poco rumore i suicidi all’interno delle carceri, forse la gente li percepisce meno gravemente perché chi è in carcere ha già subito una condanna morale da parte della società.
Ma se, come la stessa prof.ssa Patrizi afferma, il suicidio è una forma di comunicazione di un grido rimasto inascoltato, forse sarebbe il caso che fosse la legge e lo Stato ad occuparsi di questi casi, magari fornendo dei provvedimenti normativi di prevenzione che possano dirottare questo dramma che ciclicamente si ripresenta.
“Forse una nuova norma attuativa che sancisca un numero di operatori (educatori, psicologi, assistenti sociali) adeguato a realizzare l’individualizzazione del trattamento sia all’interno del carcere sia nelle misure alternative sarebbe necessario.
Ma in realtà la nostra carenza fondamentale credo non sia nelle leggi ma nella loro interpretazione e attuazione. Una norma che varrebbe la pena introdurre riguarda il supporto nel corso delle misure alternative.
Intanto, ritengo assolutamente inadeguato il solo intervento del servizio sociale e sarebbe anche opportuno sancire che la misura alternativa venga seguita in termini di continuità dagli operatori che hanno accompagna to la persona durante la detenzione (educatori e psicologi).
“Ma questo - conclude la prof.ssa Patrizi - risulterebbe ancora insufficiente al di fuori di un più mirato investimento in termini di politiche sociali e di risorse necessarie a realizzare un sistema integrato di servizi che favorisca, sostenga e ratifichi progettualità integrate fra giustizia, enti locali, terzo settore e volontariato, a partire dal riconoscimento di buone pratiche già attive che, adeguatamente sostenute, potrebbero essere estese, uscendo dal piano dell’eccezionalità”.
Marroni (Garante detenuti Lazio): l’agenda politica italiana ha altre priorità
“La situazione del sistema penitenziario regionale è impressionante e lo testimoniano anche i 14 decessi di detenuti registrati nel 2012 nella regione: 5 sono le morti per malattia e 4 per suicidio mentre per altre 5 morti le cause sono ancora in fase di accertamento”.
Il Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, descrive così all’Agenparl la situazione carceraria regionale. “Nel 2012 si è registrato un tasso di sovraffollamento effettivo del 46%. La metà degli istituti ha un sovraffollamento superiore al 50%. Le percentuali più alte si registrano al Nuovo Complesso di Civitavecchia con l’88%, a Latina con l’85% e a Cassino con il 73%.
Il carcere con più detenuti è Rebibbia Nuovo Complesso con circa 1.800 presente a fronte di 1.218 posti disponibili (45%). Il 93% dei detenuti sono uomini; il 40% non è un cittadino italiano. Il 44% dei reclusi è in attesa di giudizio definitivo. In carcere, oltre ai 7.000 detenuti, ci sono anche 17 bambini di età inferiore ai 3 anni, figli di detenute madri”. Il Lazio presenta nei suoi 14 istituti penitenziari una popolazione carceraria pari a 7.171 detenuti per una capienza regolamentale di 4.834 posti letto.
Immaginare quali possano essere le condizioni di vita delle migliaia di detenuti resta una sensazione a dir poco raccapricciante. Il 35% dei detenuti è tossicodipendente; circa il 50% assume psicofarmaci e solo il 10% può contare su un sostegno psicologico. Fra i detenuti, anche 25 minorati psichici ed oltre 150 internati provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Stando a quanto riporta il Garante Marroni, l’ambito più delicato è quello del diritto alla salute.
“In questo settore, -spiega - le carenze riguardano, soprattutto, l’assenza di una politica regionale per la sanità penitenziaria a 5 anni dal trasferimento delle competenze dal Ministero di Giustizia alle Asl (Dpcm 1/4/08), che causa una disomogeneità dei servizi erogati. La mappa dei disagi comprende l’assenza di assistenza sanitaria notturna nel carcere di Rieti, l’assistenza a singhiozzo negli istituti per la carenza di personale, lunghe liste d’attesa per le visite esterne. Molte problematiche sono legate al deficit della sanità regionale, che causa ritardi nella redazione dei piani per la salute mentale in carcere, la contrazione dei percorsi terapeutici per i tossicodipendenti e dei programmi in comunità terapeutiche.
I mancati pagamenti da parte della Regione hanno causato anche l’interruzione del servizio di Telemedicina in carcere”. “Il costante incremento dei detenuti - dice ancora - le strutture fatiscenti, le carenze di personale, il taglio di ingenti risorse economiche e, non da ultimo, la latitanza della politica”: sono queste le concause denunciate che hanno permesso al Lazio di sfociare in questo drammatico tunnel di criticità.
Rocco Duca: il punto di vista di un agente di polizia penitenziaria
“Siamo soli ad affrontare situazioni e fatti che chi vive all’esterno di questo contesto neanche immagina”. Rocco Duca, agente di polizia penitenziaria nella Casa Circondariale di Rebibbia, racconta all’Agenparl la situazione delle carceri italiane da un altro punto di vista.
Spesso, infatti, ci si scorda di uomini che in contesti delicati e duri da vivere, come quelli delle galere, si potrebbero definire dei “secondi abitanti del carcere”, per il loro ruolo e le loro mansioni. “L’organico dei nostri istituti, o almeno in quello dove io svolgo servizio, è al di sotto del 50% e il rapporto agenti - detenuti e di 1:100 circa. Le mansioni che svolgiamo sono molteplici.
Spesso facciamo diversi servizi tutti insieme, perché qualche benpensante che non aveva granché da fare ha clonato il termine “lavoro dinamico”. Così si sopperisce alla mancanza di personale a discapito della sicurezza”. In queste prigioni dove risulta difficile distinguere i veri reclusi, chiunque metta piede viene inglobato in un tunnel senza uscita dove la problematicità e i disagi hanno ormai raggiunto soglie sul punto di non ritorno.
“Qui dentro - continua l’agente - ci sono operatori o poliziotti che lavorano da 30, 40 anni. E si può affermare con tristezza che anch’essi hanno scontato il loro personale ergastolo. Siamo come detenuti in semilibertà, anche mettendo il piede fuori dall’istituto, dopo l’orario di lavoro, i problemi nati dentro non muoiono fuori. Lo Stato non aiuta le forze dell’ordine oltre alla carenza della benzina nelle auto.
Non abbiamo vestiario, spesso non viene pagato lo straordinario che si è costretti a fare per mancanza di personale a discapito della propria famiglia. Ma (lo Stato) si ricorda che esistiamo quando c’è da consegnare una medaglia alla memoria perché qualche poliziotto ha sacrificato la propria vita facendo il suo dovere per la collettività.
Ma nel quotidiano, nessuno, e dico nessuno, ti dà una parola di conforto. I poliziotti penitenziari fanno un lavoro delicatissimo, e noi… e di questo ne vado fiero ed orgoglioso… riusciamo giorno per giorno da soli a trovare quelle gratificazioni che ci aiutano a continuare a svolgere il nostro delicato lavoro nel migliore dei modi”. Rocco racconta come sia difficile tenere a bada gli equilibri all’interno delle celle, che tra l’altro, spiega che non si chiamano più così, ma camere detentive.
“Come se, per qualcuno, cambiando la dicitura cambiasse la situazione. Situazione che è drammatica. In alcuni cosiddetti cameroni sono ammassati 10 detenuti. Quel che è peggio è che spesso si ritrovano a dover convivere 10 realtà e culture diverse, dal colore della pelle, alla religione, al modo di pensare. E non far degenerare il tutto spesso è molto complicato”.
Stando ai dati, tra il numero di suicidi in carcere, si contano sempre più vittime anche tra gli operatori e gli agenti di polizia penitenziaria. E questo, spiega ancora l’agente,” è dovuto sicuramente al duro lavoro o alla pressione che giornalmente subiamo. Questa determina poi un crollo psicologico. Mi dispiace doverlo ammettere, ma molti di noi non sono nemmeno preparati ad affrontare queste pressioni, perché nessuno ci insegna come affrontarle e come affrontare anche la sofferenza e la disperazione dei detenuti che spesso facciamo nostre”.
“Se noi abbiamo questa situazione - conclude Rocco Duca - è perché in realtà non c’è mai la certezza della pena. Spesso gli stessi detenuti affermano (per fortuna sono pochi):” Ci conviene delinquere piuttosto che lavorare. Si ha quel che si desidera, e anche se poi ci arrestano poco dopo si torna fuori. Tanto la legge non funziona e con qualche cavillo burocratico di galera se ne fa poca. Per tutto questo, quindi, dissento con tutte le alternative tirate fuori dal cilindro negli ultimi anni. È vero, svuoteranno le carceri, ma per quanto tempo? E soprattutto, a che costo? E della credibilità dello Stato in tutto ciò e della sua debolezza, ne vogliamo parlare?”
Il racconto di Buccafusca… la vita in semi-libertà
“Chi non è mai entrato in un istituto penitenziario, non può avere mai la percezione di quello che realmente è. Lo dice uno che ci ha vissuto, la situazione non è bella. In stanze in cui dovrebbero vivere 4 persone ce ne sono 6, addirittura 8. Ed un solo bagno, un solo lavandino, vicino alla cucina. Se uno si lava un altro non può cucinare. E viceversa. Questa è la situazione”.
Savatore Buccafusca, detenuto in semilibertà da 3 anni del Carcere di Rebibbia, racconta ad Agenparl la sua storia. Esce la mattina alle 7 e rientra alle 22. Lavora. Dirige 2 società che operano nel settore dell’edilizia e finalmente si sente realizzato.
Ha studiato per diventare un attore e ora nel tempo libero recita e gira l’Italia con la compagnia del Carcere di Rebibbia, guidata dal dott. Antonio Turco. Salvatore si scontra quotidianamente con i pregiudizi e le paure della società che lo continua ad etichettare come “detenuto” e non come un “semplice” cittadino.
“Prima ero un succube del denaro. Non vedevo altro che soldi e i modi e le maniere per ottenerli: droga, riciclaggio - dice Salvatore. Chiaramente vivevo in un contesto sociale dove era facile operare tutto ciò, ma non voglio dare le colpe a nessuno. Ognuno di noi è responsabile di ciò che decide di fare della sua vita. Dopo varie vicende giudiziarie decido di costituirmi per pagare il mio debito con la giustizia e in quel momento nasce in me la consapevolezza di aver commesso degli errori.
E allora, sembra un paradosso, ma finalmente mi sento libero seppur recluso in un carcere”.
Secondo Salvatore, infatti, “dentro al carcere c’è chi è libero e c’è chi è prigioniero. La differenza è che si è prigionieri finché si rimane intrappolati nel passato. Allora tutto è contro di sè. Se invece si raggiunge la consapevolezza di aver commesso un errore, in quel momento si diventa liberi, e liberi anche di vivere il carcere”. “Il carcere è solitudine, il carcere è frustrazione. Il carcere è un macello di cose che non si possono elencare.
Non tutti hanno la forza sufficiente, un supporto familiare alle spalle, quelle piccole basi culturali per poter affrontare il carcere in maniera diversa. C’è gente che non ha nessuno. Fanno rabbia tutti quei politici che rilasciano solo dichiarazioni e che non conoscono la realtà vera - dice Buccafusca - non si vanno mai a confrontare con delle persone che hanno chiara l’effettiva realtà del carcere. Poi ci si sorprende dei suicidi, dell’autolesionismo… È normale! Ti ritrovi completamente abbandonato a te stesso”. E quando si ha il privilegio di uscire fuori, la situazione sembra diventare ancora più drammatica.
“Paradossalmente un uomo recluso non ha i problemi che incontrerebbe se mettesse i piedi fuori. Quando si è dentro, bene o male si sopravvive, ma fuori si ritrova rimmerso nei problemi che aveva prima, quando commetteva reati. Non c’è un vero e proprio organismo che ti prende per mano e ti conduce verso un’assistenza, un posto di lavoro. Non esiste!”.
Un uomo che commette un reato è un delinquente. Un uomo che ha scontato la sua pena resta sempre un delinquente e in quanto tale ricominciare da zero e ricostruirsi una nuova vita resta a quanto pare una vera utopia. Salvatore, a tal proposito, ha un’idea semplice: un protocollo d’intesa col Comune di Roma. “Tu, Sindaco, che hai dato la licenza a queste aziende.
Mi assumi 2 ex detenuti per favore? Solo 2!’ Mi viene risposto che non c’è posto nemmeno per gli “altri”, i “normali cittadini”. E noi? Che siamo?!. Bisogna traghettare la gente che ha sbagliato e rimetterla sulla giusta via? Ma datele un’opportunità lavorativa”. Questo chiede Salvatore Buccafusca alle autorità.
“Per carità la bacchetta magica non ce l’ha nessuno - conclude Salvatore - ma c’è bisogno di un pronto intervento fuori dal carcere. Se poi si dà l’opportunità e non viene accetterà è un altro discorso. Ma fuori dal carcere occorre un punto di riferimento. Io per fortuna avevo la mia famiglia alle spalle, il mio lavoro da riprendere. Mi sono rimesso in gioco e sto bene. Ma gli altri?”
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