Giustizia: il carcere è una discarica sociale che produce recidiva…

Dalla Rassegna stampa

“Ridotte così, le carceri sono accademia per le organizzazioni criminali”. Lo ha detto Roberto Saviano intervenendo al convegno “Mafie ed economia” a Castel Capuano a Napoli, alla presenza del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. “Sono d’accordo con il ragionamento del ministro Cancellieri, il decreto non è svuota carceri ma salva carceri.
C’è un problema drammatico - ha aggiunto - e la democrazia si valuta dallo stato delle carceri. Mi rendo conto che c’è un paese disperato che si chiede come sia possibile, con l’assenza di lavoro e una situazione difficilissima, concedere a chi ha sbagliato questa attenzione. È un pensiero in buona fede, ma a loro dico che il carcere ridotto così è un’accademia per le organizzazioni criminali”. “Qualche anno fa in carcere non era immediato il rapporto con le organizzazioni criminali. Lo era negli anni Ottanta, poi non lo è stato più per un certo tempo. Negli ultimi anni invece - ha concluso - chiunque entra cerca l’interlocuzione mafiosa”.
Chi conosce il mondo delle carceri questo concetto espresso da Saviano lo ripete da tempo ,opponendolo ai tanti che invocano una astratta certezza della pena, che di fatto diventa una certezza della recidiva per tutti quei soggetti che lo Stato di fatto rinuncia a rieducare e li consegna alle organizzazioni mafiose che a loro modo invece lo fanno.
Una questione che riguarda soprattutto i giovani che sono la componente più significativa anche dal punto di vista numerico della popolazione penitenziaria, anche in Calabria dove la metà dei detenuti ha un’età compresa tra i 18 ed i ai 35 anni, nella maggior parte dei casi i tratta di giovani alle prime esperienze detentive, i cosiddetti giovani in bilico, perché non hanno ancora fatto una scelta irreversibile di criminalità e che possono quindi ancora essere recuperati alla legalità. Giovani che si trovano a stretto contatto con soggetti i appartenenti alla criminalità organizzata che sempre più numerosi, grazie ai successi ottenuti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, fanno ogni giorno ingresso nelle carceri calabresi.
È notorio che la criminalità organizzata tende a mantenere il suo potere anche all’interno del carcere, anzi questo territorio è sempre stato considerato un “luogo strategico”, sia di legittimazione dei rapporti di forza all’interno delle organizzazioni mafiose, sia di possibilità di riproduzione attraverso l’attivazione di precisi meccanismi di cooptazione. Il carcere, con il regime di “convivenza forzata” che instaura, rappresenta il clima più favorevole per la criminalità organizzata per “avvicinare” nuovi soggetti, soprattutto giovani, attraverso una vera e propria azione di indottrinamento che può iniziare con forme minime di “accoglienza e solidarietà” attivate verso chi viene arrestato e che possono consistere nel mettere a disposizione l’avvocato, nel farsi carico dei problemi economici della famiglia, nel reperire un lavoro al momento della scarcerazione.
Emblematica è a tale proposito la testimonianza di un collaboratore di giustizia di Reggio Calabria, di come ha vissuto a suo tempo il rito dell’affiliazione mafiosa all’interno delle carceri: “per entrare nella cosca di regola i tempi dell’osservazione variano dai 6 mesi ad un anno. Il candidato per fare ingresso nella cosca viene coltivato, studiato, messo alla prova con piccole cose, azioni di media importanza che ne evidenziano il valore ed il coraggio. Durante il mio primo arresto, all’età di 18 anni, fui battezzato e mi fu detto che ero un uomo Loro”.
Dalla testimonianza del collaboratore di giustizia emerge in modo inquietante come all’interno delle carceri vige un vero e proprio “trattamento penitenziario” da parte della criminalità organizzata nei confronti dei giovani detenuti, quasi “alternativo” a quello previsto dall’ordinamento penitenziario.
Tale fenomeno, che in passato ha avuto dimensioni particolarmente vistose, si è in parte attenuato negli ultimi anni a seguito dei provvedimenti adottati dal DAP di divisione dei detenuti in sezioni di alta e media sicurezza e sia soprattutto grazie all’introduzione del regime differenziato ex art. 41 bis che ha almeno garantito la separazione tra i capi carismatici delle organizzazioni criminali e gli altri detenuti.
È anche per questo che la criminalità organizzata di stampo mafioso ha una grande capacità di riprodursi e un carattere pervasivo. Ciò gli permette di non soccombere sotto i colpi della azione repressiva e di contare su un ricambio continuo attraverso la sostituzione dei capi arrestati con nuovi elementi che non trovano difficoltà a ricoprire gli stessi ruoli all’interno delle gerarchie mafiose. Per questo è necessario che accanto alla azione giudiziaria di contrasto vi sia parallelamente un’azione mirata di prevenzione per bloccare i processi di riproduzione del fenomeno. In questa azione il sistema penitenziario ha un ruolo strategico che finora è stato sotto valutato.
L’introduzione del regime 41 bis, il cosiddetto “carcere duro” il trasferimento in strutture penitenziarie di altre regioni dei capi della ndrangheta è stata una scelta positiva anche in questa ottica, ma non ha risolto il problema della affiliazione mafiosa che continua anche a causa a causa del sovraffollamento delle carceri e della riduzione dei fondi previsti per la realizzazione di attività lavorative, trattamentali e di recupero sociale. Infatti, solo con la realizzazione dei circuiti penitenziari differenziati più volte annunciati e con un trattamento diversificato si potranno avere cambiamenti sostanziali.
In sintesi, occorrerebbe che si prevedesse un diverso percorso fra i detenuti anziani ed i nuovi giunti. Che i giovani avessero strutture interne a custodia attenuata diverse dagli adulti, che i soggetti mafiosi avessero sezioni solo per loro, indipendentemente dal regime carcerario. Ma che soprattutto si garantisse, come prevede l’ordinamento penitenziario, un regime carcerario di vera riabilitazione in campo lavorativo, scolastico e pedagogico.
In Calabria, grazie all’intuizione del compianto provveditore regionale Paolo Quattrone ,è stato avviato nel 2004 l’Istituto a custodia attenuata di Laureana di Borrello, unico in Italia che ha permesso la sperimentazione di un trattamento avanzato dei giovani detenuti a cui è stata concessa la possibilità di fruire di percorsi di riabilitazione e di responsabilizzazione attraverso il lavoro ed un progetto pedagogico personalizzato.
L’idea di Quattrone non era quella di realizzare a Laureana un’isola felice, ma di estendere questo metodo di lavoro a tutte le carceri calabresi, offrendo ai detenuti che ne avessero la volontà una concreta alternativa alla condizione di passività e di deresponsabilizzazione che normalmente il carcere provoca. Questo percorso riformatore si è purtroppo bloccato anche in Calabria. L’Istituto di Laureana è stato chiuso tra lo sconcerto e le proteste del mondo politico, religioso e del volontariato che lo avevano conosciuto ed apprezzato come modello avanzato di trattamento penitenziario.
Oggi la situazione di sovraffollamento anche in Calabria ha orma superato i livelli di guardia, così come si assiste ad un vero e proprio abbandono delle politiche di trattamento penitenziario, di recupero e di inclusione sociale anche di quei soggetti che potrebbero averne un reale beneficio Una situazione di emergenza che ha trasformato le carceri in contenitori di abbandono, vere e proprie discariche sociali con un aumento progressivo di soggetti tossicodipendenti, immigrati, disagiati mentali e sociali.
Una politica miope, che invece di creare sicurezza la fa venire meno, nel momento in cui il carcere invece di produrre riabilitazione ed opportunità di riscatto sociale, produce recidiva e quindi un aumento dei soggetti che inevitabilmente ricadranno nel reato. La promessa della prossima apertura della casa di reclusione di Arghillà e della riattivazione di Laureana, se mantenute potranno portare un sollievo alla situazione di emergenza e condizioni di vita più dignitose per i detenuti.
La strada da imboccare è anche quella delle misure alternative al carcere, che ovviamente non può riguardare i soggetti autori di reati ad alto allarme sociale che rappresentano però solo il 20% della popolazione detenuta. Una strada che si è dimostrata positiva se si guardano le ricerche condotte che fanno emergere come l’80 % dei soggetti che fruiscono di tali benefici non commettono più reati, a fronte invece di una recidiva del 70% dei soggetti che dopo la dimissione e senza avere potuto sperimentare un reale percorso tratta mentale e di accompagnamento sociale, rientrano in carcere.
Un ruolo importante è chiamato a svolgerlo la Regione Calabria, che negli anni scorsi aveva stipulato un protocollo d’intesa importante con il Ministero della Giustizia ed aveva anche sperimentato interventi positivi sia all’interno delle carceri che fuori attraverso iniziative di sostegno ai percorsi di formazione ed inserimento lavorativo.
Serve un’azione congiunta con il mondo della cooperazione sociale e con il volontariato per attivare una rete di accoglienza e di inclusione sociale per chi ha scontato la pena e desidera ritornare ad essere cittadino che vuole rientrare nella legalità.
In gioco non vi è solo la dignità violata ed i diritti umani delle persone private della libertà - come ha autorevolmente denunciato il presidente Giorgio Napolitano - ma anche l’interesse dello Stato a contrastare concretamente l’azione di proselitismo della criminalità organizzata sui giovani e quindi a non vanificare di fatto l’azione di repressione della Magistratura.
In Calabria l’azione di contrasto alla ndrangheta si gioca anche su questo versante. Lo Stato nelle sue varie articolazioni centrali e locali deve decidere se intende realmente mettersi in concorrenza con l’antistato, che offre opportunità di lavoro, protezione, identità, oppure restare spettatore muto e rinunciare a questo suo ruolo educativo e preventivo.

//

 

SEGUICI
SU
FACEBOOK

Ti potrebbe interessare anche:

Dichiarazione di Michele Capano, tesoriere di Radicali Italiani:   Le parole del Presidente Mattarella testimoniano l'urgenza di rivedere il sistema dell'esecuzione penale minorile, che in Italia difetta di regole apposite diversamente da quanto accade in altri paesi europei, e in linea con...
Dichiarazione di Riccardo Magi e Michele Capano, segretario e tesoriere di Radicali Italiani, e di Barbara Bonvicini,tesoriera dell'Associazione Enzo Tortora Radicali Milano   Come Radicali Italiani vogliamo esprimere pieno sostegno alla battaglia nonviolenta del compagno Lucio Bertè,...
La tanto amata (a parole!) Costituzione italiana afferma che la pena ha come obiettivo rieducare il condannato. Nonostante lo spirito illuminato della Costituzione, le prassi che regolano le carceri in Italia e alcune leggi, hanno come obiettivo evidente punire e colpire soprattutto chi non ha...