Giustizia: in carcere è la quotidianità la pena peggiore da scontare

Dalla Rassegna stampa

Ma che cosa deve avvenire di più grave, di irrimediabile nelle carceri italiane perché il Parlamento si decida a prender di petto la questione? Che cosa deve succedere ancora - una rivolta, un suicidio di massa, un rogo che arda per giorni e minacci di divampare fin dentro i palazzi potere - prima che si ammetta che la vita nei reclusori non è più umana, prima che si faccia mea culpa per aver tollerato una condizione di autentica tortura, prima che si dichiari di fronte all’Italia e al mondo che il nostro civilissimo paese non è in grado di amministrare giustizia?
Quanti vivono a contatto col mondo carcerario sanno che è l’estate la stagione più pericolosa, durante la quale i problemi si acutizzano e raggiungono la massima tensione. Che cosa può avvenire in una cella di tre metri per quattro, pensata per un singolo detenuto ma nella quale se ne affollano tre o quattro o cinque, con letti a castello o materassi in terra, senza spazio per muoversi, respirare, tendere le braccia, leggere una lettera, usare il bugliolo senza che ciò diventi un atto collettivo?
Non c’è bisogno di andare lontano: pensi ciascuno a un giorno afoso nella propria casa, nel giardino, sul terrazzo, pensi allo sforzo di trovare un attimo di refrigerio o silenzio, pensi a una bevanda fredda o a un ventilatore che funziona con un clic; e poi si trasferisca col pensiero in una cella che odora di sudore e di urina, in un camerone chiassoso e affumato, in un cortile assolato e senza un filo verde ove si odono solo urli disperati, per un’ora d’aria che magari si tramuta in un’ora di veleni…
“Se stiamo dentro solo a marcire, non diventeremo mai persone responsabili”, ha detto un detenuto al giornalista in visita al carcere massima sicurezza “Due Palazzi” di Padova. E in queste parole, insieme di denuncia e speranza, si aggruma tutto il disastro della vita reclusa: il sovraffollamento (920 persone per 400 posti a Padova, 66mila detenuti per 47mila posti nei 206 istituti d’Italia), l’assenza di qualunque progetto di recupero, il tempo vuoto che piega corpi e menti, l’allentarsi del rapporto con le famiglie (almeno per chi su una famiglia può ancora contare), la scarsità di supporti materiali e psicologici che inducano a guardare al futuro con un minimo di speranza. Il carcere - è vero - assorbe risorse, ma un carcere che non “recupera” costa molto di più oggi e domani, e la recidiva fa il resto. Chi ha sbagliato deve pagare, è giusto e necessario, ma come puoi illuderti di non ricadere se, scontata la condanna, uscirai senza disporre di difese più forti?
Non dovremmo mai dimenticarlo, ma la Costituzione (art. 27) dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ebbene, qualcuno può affermare onestamente che il sistema penitenziario italiano restituisce alla società un soggetto migliore di quello che gli fu affidato, più consapevole sotto il profilo civile, più ricco dal punto di vista umano? Non si nega che talvolta una somma di circostanze favorevoli, soggettive e ambientali, produca qualche miracolo.
Ma per l’appunto si tratta di miracoli. La realtà è quella denunciata per l’ennesima volta dal presidente Napolitano nell’incontro coi corpi di polizia penitenziaria: la necessità di indicare “il comune riconoscimento obiettivo della gravità e estrema urgenza della questione carceraria”. A parole tutti se ne dicono convinti, ma come è che nella sostanza non cambia mai nulla?
In carcere la quotidianità è la pena peggiore: l’attesa snervante dei giudizi, il tempo vuoto che abbrutisce, il lavoro come miraggio, l’uso e l’abuso di psicofarmaci, l’astenia che logora il fisico, la perdita di speranza come afflizione aggiuntiva che nessun tribunale ha deciso. Di qui i suicidi, le rivolte, la rabbia, il rischio incombente dell’esplosione.

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