La forza dei fatti

Dalla Rassegna stampa

Che una questione fiscale, grande e grossa, esista, lo dicono i fatti e non la coda ideologica di polemiche politiche strumentali. Fatti corroborati dai numeri nel caso della politica di bilancio. E fatti esplicitati dalla cronaca giudiziaria, penale e civile, che toccano il rapporto tra lo Stato e i cittadini-contribuenti. Dopo vent'anni di mancate riforme (e crescita), è del resto inevitabile che la questione fiscale si riaffacci prepotente sulla soglia della Terza repubblica.
Punto primo, la politica economica. Mossa obbligata all'atto dell'insediamento del Governo Monti per rimettere l'Italia in carreggiata in Europa, la sterzata fiscale sta mostrando i suoi amari frutti. Se prima eravamo già fuori linea nel confronto europeo, ora lo siamo di più. La correzione per il 2013 fa perno su aumenti di imposte e tasse per circa il 70% con la pressione fiscale prevista oltre il 45% (che arriva intorno al 55% se si considera il sommerso) per il trienno 2012-2014. Sono cifre che si commentano da sole, da Paese ultra-scandinavo che avendo il terzo debito pubblico del mondo non ha però le risorse per la ricerca. O per gli asili nido.

La Corte dei Conti ha già messo in guardia sul corto circuito tra rigore e crescita e sugli effetti recessivi di questa impostazione, effetti di cui lo stesso premier Mario Monti nei giorni scorsi si è detto consapevole. Non a caso, e di questa trasparenza va dato atto al Governo, dal Documento di economia e finanza (Def) si ricava che la "quota" di recessione conseguente il taglio del disavanzo avrebbe già «dissolto» (copyright Corte Conti) la metà dei 75 miliardi della correzione prevista per il 2013. Insomma il pareggio di bilancio si tiene, sì, ma in «equilibrio precario». E senza crescita la sostenibilità del caso Italia sui mercati (da ottobre 2012 a fine 2014 dobbiamo finanziarci per 417 miliardi rispetto ai 267 della Spagna) diventa molto più difficile.
Abbassare la pressione fiscale sui «contribuenti in regola, sul lavoro e sulle imprese» è quello che sostiene anche la Banca d'Italia la quale fa notare che sui prezzi dei beni energetici l'imposizione fiscale è tra le più alte d'Europa. Non bastasse, il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha appena detto che le imprese «stanno morendo di fisco» e che in cambio di meno tasse gli imprenditori sono disposti a rinunciare a qualsiasi incentivo pubblico.

Anche in questo caso, quando il peso totale delle imposte e dei contributi sul lavoro supera in Italia il 68% contro il 46,7% della Germania o il 37,3% della Gran Bretagna, non c'è nulla da aggiungere. Bisognerebbe solo agire.
Usiamo il condizionale perché la strada sembra essere ancora lunga, visto che anche l'urgenza della «questione fiscale» di bilancio non pare essere condivisa del tutto. Ieri il ministro dell'Economia, Vittorio Grilli, ha spiegato che «mettere i conti a posto è ineludibile e che parlare di troppe tasse che strozzano la crescita è una terminologia troppo forte. Il Governo si è posto l'obiettivo di evitare l'aumento dell'Iva e l'Iva viene prima della riduzione del cuneo fiscale». Significa che non se ne parla fino al 2014, almeno per l'agenda dell'attuale governo. E che una ri-composizione drastica pro-crescita del bilancio pubblico (meno spesa, meno pressione fiscale, meno oneri burocratici) non è in cantiere. Ma è sostenibile un percorso che partendo dall'indiscutibile necessità di tenere sotto controllo i conti finisce, sul fisco, per sconfinare in un gradualismo che fa rima con immobilismo?

Punto secondo, il rapporto tra Stato e cittadini-contribuenti. Che l'evasione fiscale sia una costosissima piaga endemica (confermata dal rapporto dei Servizi europei per l'impiego) e che come tale vada combattuta con tutte le energie (ma evitando l'affermarsi di una politica del "sospetto") è un dato. Però bisogna guardare anche oltre, perché il rispetto della legalità non vuol dire solo «lotta all'evasione» contro i soliti furbi.
Furbo (o compiacente, o inefficiente o tutte e tre le cose assieme) non deve essere nemmeno il pachidermico Stato, a tutti i suoi livelli, centrali e periferici. Il caso dell'Erario, sollevato ieri dal Sole 24 Ore, di un miliardo di euro (l'Iva applicata alla tassa rifiuti bocciata nell'ordine da Corte dei Conti, Cassazione e Corte Costituzionale) che il Governo continua a pretendere è esemplare. Un'imposta contrabbandata a suo tempo come tariffa, e per questo dichiarata illegittima, viene ugualmente riscossa e non rimborsata in barba alle sentenze dei giudici, Corte Costituzionale compresa. I sudditi, non i cittadini, devono pagare, le casse sono vuote. Dove sia finito il rispetto della legalità, e con esso il rapporto fiduciario con i contribuenti, non è dato saperlo. Lo stesso si potrebbe dire della violazione annosa e sistematica dello "Statuto del contribuente", la legge del 2000 che tra l'altro stabilisce il principio della non retroattività delle norme fiscali. Le deroghe sono all'ordine del giorno: Parlamento e governi, dello Statuto, «francamente se ne infischiano», parafrasando il celebre finale del film "Via col vento".

Ieri è stato arrestato il capo azienda di Tributi Italia, una concessionaria che riscuoteva le tasse per oltre 400 comuni. Una parte del riscosso, decine di milioni, se l'era tenuto per sé per comprarsi barche e aerei, allegra "versione" fiscale del raggiro attraverso i rimborsi che sta scuotendo Regioni e partiti. Ma il caso era scoppiato nel 2009 (l'anno della legge-cornice sul federalismo fiscale), con tanto di interrogazioni parlamentari. Qualche comune si era accorto di qualcosa, molti altri nemmeno quello. E tutto è andato avanti per altri tre anni, senza che nessuno si prendesse di la briga di accertare, controllare e indagare mentre i cittadini-sudditi pagavano.

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