Il fisco vorace rischia l'autogol

Dalla Rassegna stampa

Le buone intenzioni non mancano nel progetto complessivo di revisione fiscale del Governo Monti, e il mondo industriale lo ha salutato con favore, chiedendosi semmai se ci sarà il tempo per trasformare in legge la delega, prima dello scioglimento delle Camere. Ma è nei dettagli che occorre scovare il diavolo, se vi si annida, e le prime evidenze relative all'Imu sui fabbricati a uso d'impresa sollevano almeno due questioni.

I dati segnalano che, fatte salve agevolazioni per i negozi e i laboratori condotti direttamente dal titolare dell'immobile in una minoranza di Comuni, nei capoluoghi viene applicata quasi sempre l'aliquota ordinaria, che è ben al di sopra dello 0,76% e tende invece al massimo dell'1,06% del valore catastale. Quasi inesistenti gli sconti per le nuove imprese, pochissimo riguardo per l'invenduto dei costruttori edili. Nel complesso, le stime disponibili collocano il prelievo fiscale ben al di sopra di quello dell'Ici.
La prima questione riguarda la distinzione tra rendita e reddito d'impresa. Ottima l'intenzione più volte proclamata dal Governo di spostare il carico fiscale dal lavoro e dall'azienda verso il patrimonio, e in effetti l'introduzione della nuova imposta sul reddito d'impresa (Iri) andrebbe in quella direzione.

Ma attenzione a non confondere i patrimoni immobiliari (e finanziari e fondiari) su cui si vuole esercitare una maggiore e più efficace pressione fiscale, con i capannoni e gli uffici delle imprese. Si tratta qui di investimenti a scopo produttivo, sui quali la tassazione agisce come un'addizionale sull'aliquota complessiva a carico dell'azienda.
Secondo la Banca mondiale il Total tax rate 2011 sul reddito d'impresa è stato del 68,5% in Italia, contro il 46,7% in Germania e il 37,3 nel Regno Unito (si veda http://data.worldbank.org/indicator/IC.TAX.TOTL.CP.ZS). È una delle ragioni per cui ci troviamo così in basso nelle classifiche della competitività delle imprese e dell'attrattività dei territori per gli investitori. Se rispetto ai partner/concorrenti europei imponiamo un fisco più pesante, un'energia molto più cara e oneri sul lavoro e sul credito poco sostenibili, non c'è poi da stupirsi se l'Italia attrae molto gli speculatori che sullo spread si sono arricchiti, ma attrae meno gli imprenditori. Se si vuole penalizzare la rendita, occorre guardare nelle direzioni giuste, verso i grandi patrimoni a uso residenziale oppure verso le concessioni demaniali da cui talvolta gli stessi Comuni che impongono l'Imu non sanno trarre i proventi adeguati.

La seconda questione riguarda le Pmi. La delega fiscale prefigura un'aliquota proporzionale sul reddito d'impresa che, combinata con le misure che premiano il reinvestimento degli utili, dovrebbe favorire la crescita dimensionale delle aziende. Anche qui, ottime intenzioni, basta che il malato che dovrebbe prendere il ricostituente sia ancora vitale. Ma se l'Imu comporterà un esborso cospicuo per le Pmi in crisi di liquidità, si rischia di penalizzare molto la platea delle "piccole" già in sofferenza. Siamo ancora in attesa che la maggior parte dei 100 miliardi di arretrati di pagamento che le imprese vantano presso la pubblica amministrazione siano effettivamente sbloccati: a meno di un improbabile, perfetto sistema di compensazioni, le rate dell'Imu sono una brutta tegola per la cassa delle imprese.
Nella turbolenza economica e finanziaria in cui siamo tuttora immersi, ogni manovra fiscale va calibrata con cura, per valutarne l'impatto sul gettito e sui saldi di bilancio.

Sarebbe opportuno, tuttavia, ricordare che la sostenibilità di un complesso fiscale poggia sempre, in ultima analisi, sulla consistenza delle basi imponibili. Favorire il radicamento e l'investimento delle imprese deve essere uno dei cardini di un fisco inteso in senso dinamico: il capitale produttivo va incoraggiato, quello speculativo e di pura rendita colpito, a livello centrale, delle Regioni (vedi Irap) e dei Comuni. Anche per l'Imu, in prospettiva, poche imprese uguale poco gettito.

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