Il dossier. Oltre i cancelli delle prigioni

Abdul non è che l’ultimo di una lista che, a scorrerla, fa impressione: contiene i nomi e i cognomi di mille e 95 detenuti morti tra le sbarre, di suicidio, malattie, overdose, cause mai accertate. Ogni volta che accade un fatto come quello dell’altra notte alle Vallette c’è chi a quell’elenco aggiunge puntualmente un nome, undici anni di morti nelle carceri italiane, 665 solo i suicidi, quelli certi. Non mancano le tredici case di pena piemontesi, che ospitano 4.773 detenuti, quando in teoria potrebbero contenerne 3.843, quasi mille in meno: negli ultimi cinque anni, secondo i dati raccolti dall’osservatorio permanente di “Ristretti”, in quindici hanno deciso di togliersi la vita. Forse perché non ce l’hanno fatta più a sopportare il peso del carcere, il sovraffollamento, la vita dura: «Ormai la carta igienica viene razionata un rotolo alla settimana perché mancano i soldi». Forse per paura di dover tornare ad affrontare la realtà fuori da quelle mura: «Il problema del “dopo” per i detenuti è gravissimo — racconta Maria Pia Brunato che, oltre ad essere da qualche mese presidente dell’Ufficio Pio, da quasi otto anni è la Garante dei detenuti del Comune di Torino — C’è almeno la metà dei carcerati ai quali fuori dal carcere manca una prospettiva, una famiglia, una casa, un lavoro, e questo incide sul piano umano, non solo sociale».
Non ci sono solo i suicidi, due fino all’altro ieri, quattro l’anno scorso, come l’anno ancora prima. «I gesti estremi sono la punta di un iceberg — spiega Claudio Sarzotti, giurista dell’Università di Torino, referente piemontese dell’associazione Antigone — Per capire il disagio che si vive nelle carceri, dove ormai il sovraffollamento non risparmia nessun istituto, basta guardare il numero di gesti di autolesionismo, di tentati suicidi, che sono il termometro della qualità della vita dei detenuti». I dati raccolti dal Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria-Sappe parlano per il Piemonte, solo nel primo semestre di quest’anno, di 44 tentativi di suicidio, 232 atti di autolesionismo, 25 ferimenti, 118 colluttazioni, 430 carcerati in sciopero della fame, 1178 che hanno manifestato per l’amnistia.
«Inferno, è un vero inferno», denuncia il sindacato degli agenti penitenziari Osapp. «Tiriamo giù dalla corda chi cerca di impiccarsi — raccontano i sindacalisti — Con questa carenza di personale gli agenti sono un bersaglio continuo». Ogni carcere, certo, è una storia a sé: solo le Vallette ospitano 500 reclusi in più rispetto ai mille previsti. «Torino non è nemmeno tra le situazioni peggiori — fa notare Brunato — i detenuti stanno in due in una cella angusta. Il problema grande è l’inerzia della vita all’interno delle celle, e le risorse che ormai mancano dappertutto: non c’è carta igienica, mancano i detersivi, senza parlare dell’assistenza sanitaria».
Tutto questo in una regione, il Piemonte, che resta tra quelle che non hanno ancora un garante regionale dei detenuti. C’è una legge regionale che lo prevede, la numero 28 del 2009, ma da più di quattro anni è ignorata. «Ci sono stati anche cinque detenuti di Asti che hanno diffidato il presidente Roberto Cota perché non è mai intervenuto — dichiara il radicale Giulio Manfredi — Palazzo Lascaris alla fine ha pubblicato un bando al quale hanno risposto in dieci candidati, ma la nomina non è mai stata fatta. Dieci volte in Consiglio regionale ci si è provato, ma ogni volta è saltato il numero legale». Costerebbe troppo, un terzo dello stipendio di un consigliere regionale, è la giustificazione dei contrari. «Questioni ideologiche», ribatte Manfredi. Il Pdl ha avanzato una proposta alternativa, ma intanto il Piemonte continua ad aspettare un garante per i suoi detenuti.
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