Il dibattito sulle carceri nell’Aula semivuota

A inizio seduta sono meno di trenta, neanche il 5 per cento. Col passare dei minuti diventano una sessantina: non più del dieci per cento dei deputati a discutere il messaggio alle Camere del presidente della Repubblica sull’emergenza carceraria. Il ministro della Giustizia Orlando è impegnato a Bruxelles, ha mandato il suo vice Costa e il sottosegretario Ferri. Ci sono voluti cinque mesi e due rinvii per arrivare al dibattito su quella che il capo dello Stato definì «questione scottante, da affrontare in tempi stretti»; e quando finalmente è il momento l’interesse dei rappresentanti del popolo si mostra poco al di sopra dello zero. Come se il problema non fosse più un problema, a dispetto del messaggio di Napolitano e di quello che la stessa presidente della commissione Giustizia Donatella Ferranti illustra nella sua relazione; come se il decreto «svuota-carceri» approvato a fine febbraio avesse chiuso la questione. Invece quel provvedimento ha svuotato ben poco, e nelle duecento prigioni d’Italia sono tuttora rinchiusi oltre 62.000 detenuti, 15.000 in più rispetto ai posti disponibili.
Altre risposte sarebbero necessarie per adempiere l’«imperativo giuridico, politico e morale» ricordato dal Quirinale, ma l’amnistia e l’indulto indicati da Napolitano come estremo rimedio a una situazione estrema restano un tabù. Alla fine i deputati votano una risoluzione che li auto-assolve, perché certifica che «il Parlamento non è stato con le mani in mano», e si affida a riforme future. Il resto delle tre ore e mezzo si consuma tra scaramucce politiche sul passato, contrapposizioni frontali del presente e divisioni nell’inquieto Partito democratico, che risentono dell’approdo di Renzi a palazzo Chigi. Quando il capo dello Stato inviò il suo messaggio, l’attuale segretario premier era il candidato favorito alle primarie del Pd, e dette un giudizio tanto sferzante quanto definitivo sulla proposta di amnistia e indulto: «Non è seria, non è educativa, non è responsabile». E soprattutto «sarebbe un clamoroso autogol» in termini di immagine e consensi. Cinque mesi dopo Renzi ha conquistato il Pd e il governo, gli equilibri interni sono cambiati e la nuova responsabile Giustizia del partito, Alessia Morani, spiega che atti di clemenza «non servono, sarebbero solo l’alibi per una politica che non vuole scegliere né prendersi responsabilità».
Ma a sorpresa il suo predecessore Danilo Leva, che si occupava di giustizia per conto di Bersani e Epifani, ribatte nell’Aula nel frattempo arrivata a contare un centinaio di presenze (sempre sotto il 20 per cento) che è giunto il momento di «discutere di un provvedimento straordinario». Lo stesso che appena cinque mesi fa, quando rappresentava la maggioranza nel partito, considerava ipotesi da prendere in considerazione «solo come punto di approdo di una riforma del sistema delle pene». Che non c’è stata; dev’essere per qualche altro motivo contingente che ha cambiato idea. Al passato si aggrappa invece Fabrizio Cicchitto, ex Pdl passato col Ncd di Alfano, invitando tutti all’autocritica «perché non abbiamo fatto le riforme necessarie, bloccati dallo scontro permanente in materia di giustizia». Dovuto, ammette con candore, «alle leggi ad personam» in favore di Berlusconi, varate però come risposta «a certe sentenze ad personam». Come se le sentenze non siano sempre e comunque ad personam, fondate sulla responsabilità dei singoli imputati. L’oratore di Forza Italia invoca la fine della «guerra fredda tra magistratura e politica»; che cosa c’entri col sovraffollamento delle carceri non è chiaro. I seguaci di Grillo si distraggono da computer e telefonini solo quando parlano i loro rappresentanti, i quali colgono l’occasione per nuovi attacchi al presidente della Repubblica. I leghisti invocano più carceri, mentre l’opposizione vendoliana denuncia che s’è messa la pietra tombale sull’unico provvedimento utile nell’immediato.
Ne sono consapevoli tutti, compresi i radicali che fuori, sotto la pioggia, continuano a invocare amnistia e indulto «per uscire dall’illegalità». Al momento del voto le presenze sono diventate 474, ma quasi nessuno ascolta l’ultimo intervento, del democratico Verini. E chi volesse non ce la farebbe, poiché la voce del deputato è quasi completamente coperta dal brusio delle chiacchiere di tutti gli altri, al punto che il vice-presidente grillino Di Maio è costretto a richiamare i colleghi all’ordine: «Non riesco a sentire». Ma è pressoché inutile. Qualche applauso di circostanza chiude il dibattito. La risoluzione che approva la relazione iniziale passa con 325 sì e 107 no, gli altri o si astengono o non votano. La pratica «emergenza carceri», per il momento, è archiviata.
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