Dall’Europa una scossa sui diritti

L’Unione europea, in verità poco sollecita nell’aiutarci a tenere sotto controllo i flussi migratori, ha messo sotto accusa il nostro sistema carcerario. Chi non ha conoscenza diretta delle cose può pensare a un’esagerazione buonista, ma basta visitare anche occasionalmente il pianeta carcere per verificare che nella gran parte dei penitenziari nessun cittadino del civile occidente terrebbe più anche solo un animale da cortile.
L’urgentissima realizzazione delle nuove strutture carcerarie, e non soltanto la faticosa esecuzione di rabberci delle fatiscenti ed inadeguate strutture esistenti che sembra preferita dall’amministrazione penitenziaria, è la prima cosa da fare.
Basta con il circuito non virtuoso della mancanza di soldi e della conseguente paralisi della realizzazione del piano straordinario dell’edilizia penitenziaria, da anni nelle aule parlamentari e nei ministeri e poco nei cantieri. La legge ora prevede che ci siano tutti i soldi necessari per partire con gli appalti; è giusto, ed allora, si prelevino dal fondo unico della giustizia o da qualunque altra parte, anche ad evitare la prevedibile onerosa pioggia di condanne europee per violazione dei diritti dei detenuti.
La prima condizione è avere nuove carceri dignitose e un numero di posti adeguato al prevedibile flusso di detenuti. La seconda cosa è smetterla di pensare di agire attraverso misure improprie come l’amnistia e l’indulto; fra l’altro, non sono destinate a far diminuire stabilmente e cospicuamente il numero dei detenuti. In un paese civile i processi durano poco e, se si concludono con sentenze di condanna, le pene sono scontate subito e senza pietismi. Agendo sulla prescrizione e sull’organizzazione del processo si deve ottenere l’obiettivo di determinare sia una durata massima dei processi sia l’estinzione, dopo un ragionevole decorso del tempo, della potestà punitiva dello stato, vanificando tutti i tentativi dilatori di allungare il brodo processuale.
Finora la destra al governo, blandendo l’ossessione securitaria anche per distrarre da altri ben più gravi problemi, ha creato un sistema che produce molti detenuti senza fra l’altro garantire maggior sicurezza collettiva.
La detenzione cautelare e l’espiazione di pene derivanti da sentenze non definitive devono divenire del tutto eccezionali; solo chi è stato condannato con sentenza passata in giudicato, chi è socialmente pericoloso o vuole sottrarsi con la fuga alla giustizia per fatti gravi merita il carcere.
Bisogna rivedere tutto il sistema delle pene: intollerabile irrogare ad un ambulante senegalese, per la vendita di cd taroccati, una pena di 12 anni e sei mesi di reclusione, che talvolta non è irrogata neanche per un omicidio.
Gli istituti della recidiva e del cumulo delle pene vanno rivisti; è giusto aumentare le condanne per la gravità e il numero dei delitti, ma è ridicolo aumentarle senza proporzione.
Più che la discutibile misura generale di applicare la detenzione domiciliare a tutte le condanne superiori a tre anni, si dovrebbero introdurre ed utilizzare gli istituti della messa alla prova con sospensione del processo e della archiviazione per irrilevanza del fatto.
In diversi casi, chi ha commesso un reato perché ha agito in una situazione del tutto particolare deve risarcire le vittime, redimersi e percorrere percorsi rieducativi sotto il controllo della magistratura, non finire in galera.
Con le archiviazioni o assoluzioni per irrilevanza del fatto si sgombrano le aule di giustizia di fatti che sottraggono tempo ed energie al contrasto alla criminalità, specie organizzata, vero scopo delle forze dell’ordine e della magistratura.
Stesso discorso per la depenalizzazione generale, sempre annunciata mentre poi ogni nuova legge contiene qualche nuova fattispecie penale.
Due sono, infine, le attuali grandi fabbriche, ci si perdoni il termine, di detenuti: le norme in materia di clandestini e quella sugli stupefacenti, che non solo colpevolizza anche il semplice uso personale di droghe, che non va incoraggiato ma non può certo ritenersi reato, ma soprattutto rende difficile l’applicazione di misure alternative al carcere ai tossicodipendenti, di regola anche piccoli spacciatori, che in carcere percorrono solo una spirale di perdizione che conduce alla morte o all’annientamento di sé.
La clandestinità negli ingressi in Italia va combattuta in via amministrativa assicurandosi, con una breve permanenza in ambienti idonei, dell’identità del fuggitivo e della mancanza di condizioni per il riconoscimento del diritto di asilo e poi rispedendolo al mittente.
Una nuova stagione dei diritti, insomma, da applicare subito e con rigore anche a chi è detenuto, perché è da lì, non dai proclami roboanti, che si determina la civiltà di una cultura giuridica e di un paese.
© 2013 Europa. Tutti i diritti riservati
SU