La crisi della giustizia non si chiama "Berlusconi"... ma lui è il principale impedimento a risolverla!

Tra le tante crisi che affliggono oggi il nostro Paese - istituzionale, politica, economica e sociale - c’è anche una crisi specifica della Giustizia da affrontare e risolvere? Certo che esiste e da tempo. Ma non si chiama Silvio Berlusconi; non riguarda soltanto lui bensì tutti i cittadini italiani che hanno o possono avere problemi giudiziari: e non solo di ordine penale, quanto civile, amministrativo o del lavoro.
La crisi della Giustizia non è meno grave delle altre. E anzi, s’intreccia con quella politica, economica e sociale, perché influisce sul loro corso e ne condiziona il superamento. In questo senso, si può dire che Berlusconi non è “vittima della Giustizia”, come spesso lui e i suoi sodali lamentano, ma piuttosto costituisce l’impedimento principale alla ricerca di una soluzione, nella misura in cui la sua figura s’identifica con questa crisi e le sue vicende giudiziarie coincidono con essa.
In attesa della fatidica data del 30 luglio, quando la Cassazione dovrà decidere definitivamente sulle due sentenze che hanno già condannato l’ex presidente del Consiglio a quattro anni di reclusione e a cinque di interdizione dai pubblici uffici per frode fiscale, converrà dunque fissare - come si suol dire - alcuni “paletti”, ribadire cioè alcuni punti fermi che rischiano di essere travolti e confusi dallo tsunami delle polemiche politiche. E il primo riguarda senz’altro quella divisione dei poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - che dai tempi di Montesquieu appartiene alla civiltà del diritto.
Nel ventennio berlusconiano, troppe volte abbiamo già assistito a uno stravolgimento di questo principio da parte di Berlusconi e del suo partito, a colpi di provvedimenti “ad personam” (vedi Cirielli), lodi Alfano o Schifani, legittimi o illegittimi impedimenti, per non ricordare ora che “la legge è uguale per tutti”.
Si può ben dire perciò che Berlusconi non è “perseguitato” dalla Giustizia -come lui stesso sostiene, con il supporto dei suoi avvocati parlamentari e di molti suoi seguaci - perché è entrato in politica; ma al contrario è entrato in politica per non essere “perseguito” dalla Giustizia, per sottrarsi alle imputazioni della magistratura e non rispondere delle accuse che gli sono state addebitate. Tant’è che in tutti questi anni ha usato sovente il proprio potere per cambiare in corsa le regole, per introdurre modifiche normative o procedurali che hanno accorciato i tempi di prescrizione o addirittura abrogato alcuni reati, come il falso in bilancio che notoriamente è uno degli strumenti principali per praticare la corruzione.
In definitiva, quindi, l’unica vera domanda a cui bisogna rispondere caso per caso è se Berlusconi è colpevole o innocente. Ai cittadini che hanno a cuore la legalità non interessa tanto sapere se
la magistratura ha preso di mira il Cavaliere, quanto piuttosto se il Cavaliere ha violato o meno il codice penale. E comunque, come mi ha scritto di recente su Twitter un lettore, “forse non è democraticamente giusto eliminare un concorrente politico per via giudiziaria, ma lo sarebbe impedire per via politica la condanna di un colpevole?”. Questo è l’interrogativo che ciascuno di noi deve porsi in coscienza.
Poi resta, intatta, la crisi della giustizia: penale, civile, amministrativa, del lavoro. Una crisi che purtroppo dura da molti anni, compromettendo - insieme alla vita democratica - anche quella sociale ed economica del nostro Paese: la certezza del diritto è innanzitutto tempestività del giudizio. Si tratta di un disservizio pubblico prodotto da diverse cause organizzative, strutturali e anche culturali, vale a dire di cultura giuridica.
Quanto alle disfunzioni del sistema, lasciamo pure la parola agli addetti ai lavori e agli esperti. Sulle cause di fondo, invece, per quanto riguarda la giustizia penale si può concentrare il discorso su due punti fondamentali: la parità delle parti e la cosiddetta “terzietà” del giudice. Non è un mistero per nessuno che oggi né l’una né l’altra sono pienamente garantite nella nostra realtà processuale e perciò occorre provvedere nell’interesse generale.
Senza mitizzare le soluzioni a fini di propaganda politica, quasi fossero di per sé taumaturgiche, bisogna riconoscere tuttavia che sia la separazione delle carriere sia la responsabilità civile dei magistrati corrispondono a due esigenze da soddisfare. A condizione, beninteso, di non delegittimare la funzione giudiziaria, di non mortificarne l’autonomia e l’indipendenza, di non sottomettere la magistratura al potere politico proprio in nome di quella “divisione” predicata da Montesquieu.
La separazione delle carriere, fra magistrati inquirenti e giudicanti, è la garanzia minima della parità fra accusa e difesa e quindi della “terzietà” del giudice: non solo di quello finale che emette il verdetto, ma anche dei giudici intermedi (gip e gup) davanti ai quali si forma già il processo. Quanto alla responsabilità civile del magistrato che sbaglia, per colpa o per dolo, non si vede perché non si debbano applicare a questa rispettabile categoria di dipendenti dello Stato gli stessi criteri che valgono per tutti gli altri, pubblici o privati. Tanto più che anche quando i magistrati commettono dolosamente un errore giudiziario, e purtroppo in diversi casi è accaduto, alla fine a pagare è il Ministero di Grazia e Giustizia, vale a dire tutti noi cittadini e contribuenti.
La verità dunque è che fino a quando il Cavaliere resterà sulla scena politica, con tutto il suo carico di accuse e di processi, questa crisi non si potrà affrontare liberamente né tantomeno risolvere. Qualsiasi ipotesi o proposta sarà inficiata dalla commistione dei poteri che lui incarna. E la “persecuzione” di cui Berlusconi si lamenta continuerà a costituire una cortina fumogena, impedendo di affrontare i problemi reali dei cittadini comuni di fronte alla legge.
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