Credibilità riconquistata ma timidi su fisco e spesa

Dalla Rassegna stampa

Difficile non partire dalla credibilità riconquistata in Europa, nel mondo, sui mercati. Se un anno fa Silvio Berlusconi lasciava la titolarità del Governo a favore di Mario Monti, del resto, era proprio per una crisi determinata dalla caduta di credibilità dell'Italia e del suo Governo, prima ancora che da dati macroeconomici fuori controllo.
Oggi l'Italia non è più la pecora nera d'Europa. E la recuperata fiducia si è tradotta in un ritorno alla sostenibilità - non ancora normalità - della curva dei tassi di interesse sui titoli di Stato. Non è tanto il solito spread, che pure è calato da 550 punti ai 360 di questi giorni, ma sono i rendimenti del BTp a dieci anni scesi dal 7 al 5%, e ancora di più quelli dei titoli a breve che da livelli del tutto anomali - anche del 7-8% - sono tornati alla fisiologia del 2-3 percento.

Questo è davvero un dividendo di Monti e del rigore che il suo Governo ha riportato nella gestione della cosa pubblica. E tuttavia a un anno dall'insediamento del suo Esecutivo l'Italia resta uno dei Paesi più esposti sul fronte della crisi. La stabilità finanziaria fa meno paura, ma preoccupa - eccome - la recessione profonda in cui l'economia reale è caduta. I dati del Pil indicano un andamento negativo che è passato dallo 0,5% del novembre scorso a un meno 2,56 di oggi. La produzione industriale ha continuato a contrarsi e la disoccupazione è cresciuta dal 9,3 al 10,8 per cento.
Cifre pesanti. Tanto più che all'inizio del suo mandato fu proprio il premier a porre al suo Governo e all'Italia un triplice obiettivo: rigore, crescita ed equità. Oggi si può certamente dire che se il primo è stato centrato, il secondo lo è stato molto meno.
Eppure, pochi lo ricordano, ma anche il primo grande intervento legislativo di Monti, quello chiamato salva-Italia, si intitolava in realtà "Misure per lo sviluppo, l'equità e il consolidamento dei conti pubblici". Quel provvedimento ha davvero contribuito in modo determinante a salvare l'Italia nell'emergenza finanziaria, ma lo sviluppo messo ambiziosamente al primo punto in quel titolo si è perso per strada.
Colpa di Monti? La congiuntura internazionale di certo non ha aiutato e la necessaria cura di stabilizzazione dei conti non poteva non avere un impatto negativo in termini di crescita. Le riforme strutturali sul lato dell'offerta hanno poi bisogno di tempo per manifestare i propri effetti positivi sull'economia. E va detto che la riconquistata stabilità finanziaria, con i tassi ridotti, è certamente una buona base su cui poter ripartire.
L'ambizione della crescita, però, in questo anno è stata troppo spesso debole da parte del Governo. Monti è riuscito a livello europeo, con la sua credibilità, a convincere partner arcigni a dare più spazio nelle politiche europee allo sviluppo e alla solidarietà tra gli Stati. L'esito positivo del vertice del 28-29 giugno, che ha fatto da base poi alla svolta impressa da Mario Draghi alla politica della Bce, lo si deve anche, se non soprattutto, alla sua azione. Ma in Italia, all'interno dei nostri confini, si poteva e si deve fare di più.
Le semplificazioni sono rimaste, almeno per ora, in gran parte sulla carta, rallentate da un'attuazione delle riforme su cui non si riesce ancora a cambiare marcia. Le liberalizzazioni sono state frenate dalle lobby e, come nel caso dei servizi pubblici locali, da vincoli normativi e giuridici che hanno vanificato molti degli sforzi fatti (inaccettabile il ritardo sul l'authority trasporti per le contese intorno al nome di un consigliere). La riforma del mercato del lavoro, pur partendo da obiettivi condivisibili, ha prodotto effetti negativi sulla flessibilità in entrata, senza ridurre l'incertezza giuridica sul fronte dell'uscita, come testimoniano le prime pronunce post-riforma dei giudici.
Ma è soprattuto sul fisco che il governo poteva dimostrare più ambizione. Lo scambio meno spesa meno tasse non è stato praticato come si sarebbe dovuto. La spending review, anche per le resistenze politiche dei partiti della maggioranza, è rimasta ben al di qua rispetto alla riduzione della spesa che sarebbe stata necessaria per poter avviare la riduzione della pressione fiscale. Le tasse, invece, sono continuate ad aumentare: dal 42,5 di fine 2011 al 45,1 di fine 2012. Con un total tax rate sulle imprese che ha toccato il 68 per cento.
Non si fa crescita con questi livelli di pressione fiscale. La Banca d'Italia lo ha sottolineato ripetutamente nel corso di questo anno. E ancora nell'ultima audizione in Parlamento ha indicato la riduzione in parallelo della spesa pubblica e della pressione fiscale come unica chiave possibile per lo sviluppo o, almeno, per il contrasto della recessione.
Stabilità finanziaria e credibilità sono straordinari dividendi di quest'anno di governo Monti. Ma chiunque governerà nei prossimi mesi o anni non potrà che ripartire da qui.

 

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