I costi di un euro dimezzato

I dati emersi nella giornata di ieri sono preoccupanti: lo spread ha subito un'impennata e le ultime previsioni dell'Fmi sull'andamento dell'economia mondiale preannunciano una recessione più acuta nell'anno in corso e una ripresa più lenta nell'anno a venire. Ad aggravare questo quadro si aggiunge la conferma che le posizioni dei Paesi europei – dove la crisi ha il suo acme – rimangono distanti, rimarcano interessi contrapposti, punti di vista sulle azioni da intraprendere divaricanti.
Il disaccordo sul che fare tra i Paesi europei si tramuta in inazione o in azione troppo lenta e misurata per invertire il pessimismo degli investitori o sedarne l'incertezza: così è stato fin da quando, con la scoperta degli ammanchi di bilancio in Grecia la crisi finanziaria si è trasferita dagli Stati Uniti in Europa, travolgendo uno a uno i Paesi economicamente o finanziariamente più deboli. Così è oggi. Lo scudo, di cui si è celebrato il successo solo poche settimane fa, mostra limiti chiari fin dall'inizio. Mancava infatti l'elemento fondamentale che avrebbe potuto renderlo robusto ai fendenti di un attacco speculativo a uno dei Paesi euro: la possibilità di usare la dotazione del fondo di stabilità europea (Esm) come garanzia per le operazioni della Bce, consentendo in questo modo di ampliare la scala degli interventi, ovviando a un requisito normativo che impone alla Bce di operare con capitale positivo (e mette quindi dei limiti alle perdite su operazioni che la Bce può sopportare).
Stiamo pagando oggi il prezzo del disegno imperfetto dell'unione monetaria, quando si è creata una moneta unica senza allo stesso tempo creare, o iniziare a creare, un meccanismo fiscale per correggere gli squilibri ciclici nell'area dell'euro. Ma credo che stiamo anche pagando il prezzo di una cattiva interpretazione del ruolo della Banca centrale europea e del significato di "monetizzazione del debito". La Bce è stata giustamente costruita dandole tanta indipendenza quanta è necessaria per evitare che i governi finanzino le loro attività ordinarie stampando moneta, e garantire quindi stabilità monetaria – ovvero inflazione contenuta e prevedibile. A questo compito la Bce ha adempiuto egregiamente evitando la piaga degli anni 70 e 80.
Ma l'intervento oggi a sostegno del debito di alcuni dei Paesi euro non avrebbe quella natura, non servirebbe a finanziarie le operazioni correnti dei governi ma a bloccare quella che appare sempre più una crisi di fiducia sul debito di alcuni Paesi il cui futuro, persistendo le difficoltà economiche in cui versano, viene visto dagli investitori al di fuori dell'euro.
È questa aspettativa di uscita dalla moneta unica, la cui realizzazione comporterebbe serie perdite per i detentori di debito di quel Paese, che alimenta lo spread, che chiama e genera un premio per il rischio. Ed è il premio per il rischio che, se superate certe soglie, può rendere esplosivo il sentiero del debito del Paese, annullando gli sforzi di risanamento che pure si stanno intraprendendo con fatica. Secondo Carlo Cottarelli, capo del dipartimento fiscale del Fondo monetario, ben 200 punti base di spread sarebbero in eccesso rispetto ai fondamentali di Paesi come Italia e Spagna; essi rifletterebbero invece transitori stati d'animo del mercato – il pre-panico che oggi sembra colpire gli investitori.
Ebbene, l'intervento incondizionato della Bce sarebbe sufficiente per eliminare questi effetti. Sapendo che la Bce interverrebbe in caso di una crisi di debito, l'uscita dalla moneta unica non avrebbe più ragion d'essere, il pre-panico verrebbe eliminato e con esso l'effetto sullo spread. Con uno spread più basso sarebbe più semplice risanare le finanze pubbliche. Paradossalmente, se si sapesse che la Bce può intervenire per acquistare titoli di Stato, non avrebbe neppure bisogno di farlo. E allora cosa blocca questa soluzione? Tre fattori che ci richiamano alla realtà. Primo, il vincolo normativo che vieta gli interventi; se quando interpretati rigidamente probabilmente limitano la stessa disponibilità della Bce di essere coinvolta in interventi massicci di stabilizzazione finanziaria. Secondo, la difficoltà concettuale e operativa di distinguere interventi di finanziamento ordinario con moneta degli Stati membri da interventi di stabilizzazione finanziaria.
Terzo e forse più fondamentale, la paura che attraverso i secondi – gli interventi di stabilizzazione finanziaria - passino i primi - i finanziamenti con moneta di operazioni ordinarie dei governi nazionali. Questo timore è ovviamente forte in Germania ed è difficile allentarlo. Per di più se è vero che con uno spread più basso è più facile risanare le pubbliche finanze, occorre dire che questo è vero solo se vi è la volontà di farlo. Per quanto riguarda il nostro Paese, non averlo fatto nei dieci anni passati quando lo spread non esisteva, nei dati e nel lessico popolare, alimenta comprensibilmente lo scetticismo di oggi dei tedeschi, ulteriormente rafforzato dall'incertezza politica sul futuro del risanamento fiscale e del processo di riforma della nostra economia, di cui il recente downgrade da parte di Moody's è solo l'ennesimo sintomo.
Non possiamo riscrivere il passato ma possiamo condizionare il futuro se chi si candida al governo del Paese è in grado di assicurare assoluta continuità con l'opera di risanamento iniziata dal governo Monti. È il miglior contributo che possiamo dare a risolvere la crisi interna e quella esterna che sta attraversando l'Europa.
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