Contro la crisi l'unica difesa è l'attacco

L'ultimo dato Istat sul Pil italiano a fine 2012 (-2,2% anno su anno, -2,7% tendenziale) è peggiore dei precedenti e delle previsioni. Negli ultimi 12 mesi le stime hanno continuato a peggiorare dando ogni volta ragione ai più pessimisti. Non sarà sempre così. Nelle crisi si succedono delle fasi: iniziano con il crollo dei mercati finanziari, che vivono di prospettive, segue l'inaridimento degli investimenti, il crollo delle produzioni reali, la perdita di reddito, la contrazione dei consumi, che si contraggono anche al di sotto del reddito disponibile. Nel punto più basso, in cui più o meno ci troviamo, i mercati finanziari già intravedono orizzonti di crescita, mentre l'occupazione continua ancora a diminuire.
Aspettare che passi la bufera è possibile, ma ha costi sociali altissimi e può distruggere non soltanto produzioni superate e insostenibili, ma anche produzioni nascenti e potenzialmente preziose. Per questo è importante che la politica economica europea prenda in considerazione una terapia di accompagnamento, come sembra finalmente trasparire dalla disponibilità ad allentare il rigore durante la crisi.
Le terapie di accompagnamento, però, alleviano ma non guariscono. I sistemi che sono affetti da malanni gravi hanno bisogno di robuste terapie di risanamento. In un'Europa complessivamente meno vitale, raffrontata ad altre aree mondiali, l'Italia è seriamente ammalata. Lo è perché non è in grado di dare ai suoi cittadini ciò che è lecito aspettarsi da un Paese sviluppato e ricco: prospettive occupazionali attraenti, miglioramento del benessere reale, capacità di crescita. Il confronto con altri Paesi della stessa area monetaria, ad esempio Austria e Germania che nel 2012 hanno visto crescere il Pil, dimostra che il nostro malessere non è solo dovuto alla crisi: abbiamo alle spalle più di dieci anni di crescita praticamente nulla, di insufficienti guadagni di produttività, di calo della competitività.
Sarebbe un errore pensare che tutti i problemi si risolvano da soli con la fine della crisi mondiale. Bisogna fare come le imprese di successo, che sconfiggono attivamente la crisi penetrando in nuovi mercati geografici e innovativi. Non è poi così difficile, visto che in tanti, anche se non abbastanza, lo fanno. Ed è consolante, anche in tempi così severi, vedere come crescono i loro risultati e la loro reputazione. Certo bisogna cambiare. Non possiamo difendere il nostro benessere, cioè i nostri salari relativi, se non impieghiamo il lavoro in produzioni di pregio. E questo implica investire in tecnologia, in organizzazione, in marchi, in strutture di presidio dei mercati lontani. Occorrono professionalità sofisticate, che vogliano impegnarsi a fondo e stabilmente. Cioè, servono lavoratori che prospetticamente si identificano con l'azienda e non sono soltanto ad essa precariamente connessi. Ma occorre anche la disponibilità a seguire, anzi a guidare l'evoluzione del mercato. Produrre beni e servizi innovativi e di pregio è come cavalcare la cresta dell'onda: non si può farlo mantenendo una posizione fissa. Abbiamo bisogno di imprese che sappiano motivare e ricompensare impegni ambiziosi, all'altezza del benessere relativo (rispetto al resto del mondo) che vorremmo difendere e magari tornare a migliorare.
Alle imprese e alle parti sociali spetta trovare le formule giuste, per rendere compatibile la flessibilità degli impegni, indispensabile per competere ad alto livello, con la qualità della vita che ne rappresenta l'obiettivo. Al sistema pubblico, però, incombe l'obbligo di contribuire alla soluzione. A cominciare dalla riduzione della pressione fiscale, che con il 45,3% del Pil è al massimo della zona euro: un livello insostenibile in sé, e incongruo rispetto alla qualità e quantità dei servizi complessivamente resi. È proprio dalla revisione di questi ultimi che bisogna partire per fare della funzione pubblica uno dei motori della crescita, anziché una zavorra.
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