Carceri: l’unico intervento strutturale è l’amnistia... parola di Ministro

Dalla Rassegna stampa

La lettera arriva dalla cella numero 103 del carcere di Belluno. Chi scrive si chiama Corrado De Pellegrin, 50 anni, friulano di Sequals, detenuto per una violenta lite avvenuta nel 2011. Un foglio e mezzo, scritto fitto fitto in stampatello, descrive le condizioni di vita nella cella che divide con altre cinque persone. La sua lettera è firmata anche dai compagni di cella, ennesima denuncia di una situazione - l’intollerabile sovraffollamento delle carceri - condannata dalla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. “Qui a Belluno siamo in sei persone”, comincia la lettera, “con letti a castello 2 x 3 (parlano di mettere la terza branda). L’igiene è pessima... Le pareti nere di muffa... Le misure della cella sono 4 x 4,50 circa, con bagno di 1 x 1,50 con turca e mini lavandino, il tutto condito con muffa e Dio sa cos’altro. Dimenticavo, si può andare in bagno, ma bisogna ricordarsi che dalle 7.30 alle 8.30 non c’è acqua e in più la porta non si chiude”. Si lamenta perché lo scorso agosto non hanno dato il permesso di un’ora in più di “aria ministeriale, cioè dovuta per legge”. De Pellegrin è ristretto nel carcere di Belluno dal 20 agosto 2012; da allora, racconta, “sono uscito solo tre volte nell’area adibita ad aria”. De Pellegrin si lamenta per l’igiene nelle docce, per il fatto che non si possono acquistare rasoi economici, ma solo una marca costosa (“E chi non ha soldi? Barbone”).
Il caso del carcere di Belluno potrebbe essere oggetto di una delle innumerevoli segnalazioni alla Corte di Strasburgo in virtù dell’ormai storica sentenza che ha riconosciuto al bosniaco Izet Sulejmanovic un risarcimento di mille euro perché ritenuto vittima di “trattamenti inumani e degradanti”: per cinque mesi aveva condiviso una cella di 16,20 mq. con altri cinque vivendo oltre 18 ore al giorno in 2,7 metri quadri.
Il neo - Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, persona pragmatica e abituata a misurarsi sulle cose (a Bologna rimpiangono ancora la sua gestione commissariale), ha preso molto a cuore la vicenda, e l’altro giorno ha voluto incontrare - la richiesta è partita da via Arenula - la radicale Rita Bernardini, soprannominata ‘santa Rita delle carcerì per via del suo impegno a favore dei diritti dei detenuti. Un colloquio di circa un’ora. “Sono assolutamente convinta”, ha scandito il ministro, “che l’unica riforma strutturale che può risolvere l’illegalità delle carceri è un provvedimento di amnistia e indulto. L’ho già detto e lo ripeterò in ogni sede”.
Cancellieri si è poi detta convinta che i dati del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria circa la capienza regolamentare delle carceri sino sovrastimati, e che in realtà siamo assai meno dei 47mila dichiarati, e ribadito di essere determinata a sostenere fino in fondo il decreto che di fatto smantella la ex Cirielli sulla recidiva e l’emendamento, presentato alla Camera che eleva da 4 a 6 anni la pena massima per accedere alla carcerazione domiciliare (irrogata come pena), alla messa alla prova, e ad altre pene alternative al carcere. Buoni propositi, che cozzano con l’opposizione, già manifestata, del vice - presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Angelino Alfano, che non vuole nessun recidivo per furti o rapine liberato prima del tempo; la Cancellieri, all’opposto, vorrebbe qualche migliaio di detenuti al più presto fuori dalle celle. Il decreto, come dice e ripete il Guardasigilli, dovrebbe servire da valvola di sfogo per un sistema, quello penitenziario, che ha ben 22mila detenuti in più della capienza regolamentare. Secondo gli auspici della Cancellieri, con il decreto 3 o 4mila detenuti avrebbero beneficiato di una liberazione anticipata.
Insomma, da via Arenula sembrano consapevoli dell’insostenibilità della situazione, ulteriormente aggravata dall’arrivo dell’estate. In molte celle i detenuti non possono scendere tutti contemporaneamente dai letti (a castello, quattro uno sull’altro) perché non c’è spazio sufficiente per stare tutti contemporaneamente in piedi. Il 25 - 30 per cento detenuti sono tossicodipendenti. Mettere un tossicodipendente in galera comporta che se il detenuto ha del denaro continuerà ad acquistare le sostanze di cui sente di aver bisogno, esiste un vasto e fiorente circuito clandestino. Se non ha denaro cerca di procurarselo. In alternativa elemosina psicofarmaci (che nei nostri carceri entrano a tonnellate) oppure infila la testa in un sacchetto di plastica e sniffa dalla bomboletta del gas spaccandosi i polmoni.
Ma il problema evidentemente non è solo il sovrannumero. I detenuti ci dicono “chiudeteci in un metro quadrato, ma non per 22 ore al giorno”. Vorrebbero lavorare e non solo per denaro (normalmente la paga è poco più di 3 euro l’ora). Forse è anche per questo motivo che il 33 percento compie atti di autolesionismo e il 12 percento tenta il suicidio. Dal 2007 al 2011 il numero dei detenuti è cresciuto di circa il 50 per cento, anche se il bilancio per l’amministrazione penitenziaria è stato tagliato del 10 per cento.
In un quadro di generale sfacelo, alcune eccezioni - che se da una parte confermano la regola, dall’altra sono esempi di come si possa operare dando attuazione al dettato costituzionale (l’articolo 27 prescrive espressamente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”).
A Canton Mombello, in provincia di Brescia, è stato istituito un corso di formazione per interventi di Primo Soccorso che ha coinvolto diversi detenuti: uno di questi salirà su un’ambulanza del 118. Il progetto si chiama Papillon, e intende reinserire dei detenuti nella società, dando loro una chance per rinnovarsi e guardare al futuro, magari con una professione socialmente utile e che possa comunque garantire un reddito medio sufficiente a creare una prospettiva di reinserimento.
Dopo la prima parte del progetto (da giugno a ottobre dello scorso anno), in cui una dozzina di detenuti hanno concluso felicemente un percorso formativo di primo soccorso (da 60 ore) si realizza ora l’obiettivo di rendere operativo almeno uno dei corsisti su un mezzo di soccorso d’emergenza del 118, presso un’associazione di volontariato della Provincia di Brescia. Un detenuto della Casa Circondariale di Brescia infatti, attualmente agli arresti domiciliari, seguirà un apposito corso per soccorritore certificato di 120 ore a bordo di un’ambulanza: l’esperimento, il primo in Italia, è il frutto appunto del Progetto Papillon che già nel 2012 (con la collaborazione tra Aifos Protezione Civile con vari enti ed associazioni che in piena collaborazione con il Garante dei detenuti di Brescia, l’ex giudice Emilio Quaranta, e della direttrice della casa circondariale bresciana, Francesca Gioieni) ha istituito all’interno del carcere di Canton Mombello un corso di formazione per volontari di Primo Intervento.
Da Brescia a Secondigliano, in Campania. Otto detenuti di quel carcere lavorano nell’orto, attività non di semplice svago, che ha portato alla firma del protocollo tra l’assessorato all’Agricoltura della Regione Campania, il centro penitenziario e il garante per i detenuti con il quale si creerà una cooperativa per la vendita dei prodotti che già da un anno si producono. Sono tutti volontari, un tempo capi di cosche ed esponenti di spicco di clan mafiosi, quasi tutti con fine pena mai. Coltivano due ettari di terra per 20 litri di olio, e poi frutta e ortaggi. Dalla Regione Campania arrivano tremila euro più il supporto tecnico e degli agronomi che mettono a disposizione il frantoio regionale e i semi di alcuni di alcune specie in via di estinzione. Per il resto è tutto in autofinanziamento con la vendita dei prodotti all’interno del carcere. Presto per l’olio Short Chain, che si traduce sia in filiera corta che in catena corta, potrebbe anche arrivare il riconoscimento regionale di prodotto biologico.
“È come tornare alla vita”, dice Gaetano, condannato all’ergastolo per associazione a delinquere. “Così capisco davvero il valore del lavoro e capisco anche il danno che facevo quando da bambino andavo a rubare nei campi”. Per Claudio “la vita fuori è finita, non resta che questo. Siamo anche fortunati rispetto a chi è libero e vive una situazione drammatica perché senza lavoro”. Giuseppe invece è originario di un paese con un nome pesante, Corleone. E anche il suo cognome è pesante. Lui sarà uno dei pochi che rivedrà la libertà e il sogno è tornare a lavorare, ma soprattutto concludere gli studi di Agraria cominciati all’Università di Pisa. “Questo progetto è già realtà” dice il direttore del carcere, Liberato Guerriero “Siamo operativi già da un anno. È un percorso importante, assieme ad altre iniziative, come la lavorazione dei rifiuti per 30 detenuti che tra poco vedranno anche l’apertura di un sito di compostaggio”.

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