Carceri invivibili prova del nove di uno Stato incivile

Mi ha colpito, e al tempo stesso sorpreso, la dichiarazione resa da una detenuta al TGR Puglia dell’8 marzo, festa della donna, in occasione di una manifestazione tenutasi al carcere femminile di Bari, dove le recluse, ventisei in undici celle, “non scontano il sovraffollamento” (fonte la Gazzetta del Mezzogiorno del 9 marzo) che si patisce in altri istituti penitenziari in Italia. “Il carcere è un luogo di sofferenza ma anche di recupero,” ha affermato l’intervistata. È una nota di speranza che però contrasta con l’immagine, sconcertante, che del sistema carcerario italiano emerge dalla cronaca. Una condizione, quella dei detenuti, a dir poco disumana: denunciata dal Presidente della Repubblica nel febbraio di quest’anno, in una sua visita al carcere milanese di San Vittore, al VI raggio (“girone” dantesco?), un luogo (tugurio?) dove 1600 detenuti “vivono”, per così dire, ammassati come bestie, in uno spazio angusto, destinato ad accoglierne meno della metà. Le parole del Capo dello Stato sono state roventi nel definire la situazione “intollerabile, mortificante davanti all’Europa che ci addebita la violazione dei diritti dell’uomo per il sovraffollamento” e nel denunciare, indignato, “la perdurante incapacità del nostro Stato di rispettare la Costituzione”, che all’art. 27 prevede la “funzione rieducativa” della pena e contempla il “senso di umanità” cui deve rispondere la vita carceraria. È, avverte Napolitano, la violazione di un principio che mette a rischio “il prestigio e l’onore dello Stato”. Pochi giorni dopo il Tribunale di sorveglianza di Padova, con un provvedimento senza precedenti, volto a “ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena”, ha sollevato dinanzi alla Consulta una questione di incostituzionalità, chiedendo una sentenza che attribuisca ai giudici la facoltà di rinviare l’espiazione della condanna in carcere da parte di un detenuto - facoltà oggi limitata al solo caso di grave malattia - anche nell’ipotesi di una sanzione che verrebbe eseguita in uno stato di sovrappopolamento, e dunque con un “trattamento disumano e degradante” vietato dall’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Il problema è annoso. Una cosa indegna di un paese civile, denunciata da sempre, ma inutilmente, da Marco Pannella: una “voce”, la sua, che “grida nel deserto” (vox clamantis in deserto, per citare un antico adagio che si rifà a un passo di Isaia: 40.3), e che rappresenta l’urlo di tutti coloro che reclamano, inascoltati, la fine di questa vergogna.
Eppure, nella nostra Carta costituzionale, in uno dei passaggi più significativi, si dispone, è bene ricordarlo, che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” ( art.27 comma 2°). C’è, in questa norma, la tutela di un valore fondamentale, assoluto: quello della “dignità” (“sociale”, art. 3 comma 1°; “umana”, art. 41 comma 2°) della “persona” (art. 3 comma 2°; art. 32 comma 2°). Un valore che Giorgio La Pira - studioso di diritto romano, membro dell’Assemblea Costituente e componente, insieme ad altre figure eminenti, fra le quali anche il “nostro” Aldo Moro, della Commissione incaricata di delineare i principi generali della nuova Costituzione, “i muri maestri di una casa” - difende con forza contro la “statolatria” (l’infausta ideologia hegeliana), affermando in una pagina luminosa del 1943: “Non la persona per lo Stato, ma lo Stato per la persona e per tutti gli sviluppi naturali e soprannaturali della persona: ecco la legge base del vero ordine giuridico; già i Romani l’avevano magistralmente precisata: hominum causa omne ius constitutum est (D.1.5.2)”. È il passo del Digesto di Giustiniano che spiega la ratio della sistematica del diritto progettata da una giurista romano, Gaio, a metà del II sec. d.C. - iniziativa audace che ha influenzato i nostri codici - il quale, con una rivoluzione culturale rispetto al passato, mette al primo posto dell’ordinamento giuridico le “persone” e non più le “cose”, stabilendo in un testo famoso della sua opera (Inst.1.8), che “tutto il diritto” (omne ius) “riguarda o le persone o le cose o le azioni” (vel ad personas pertinet vel ad res vel ad actiones) ed esortando ad “occuparsi prima delle persone” (et prius videamus de personis). È una linea che La Pira non manca di riaffermare alcuni anni dopo, nel 1954, nel collegare il precetto giuridico a quello evangelico: “Il diritto è per l’uomo e non l’uomo per il diritto”. Una posizione che quasi anticipa l’impiego che di quell’antica massima ha ritenuto di fare Giovanni Paolo II in un discorso del 24 maggio 1996 (L’osservatore romano del 25): un accorato appello con cui, nel richiamare testualmente il messaggio del giurista (Ermogeniano) custodito in quel brano del Digesto, osserva: “La centralità della persona umana nel Diritto è espressa efficacemente dall’aforisma classico ... Ciò equivale a dire che il Diritto è tale se e nella misura in cui pone a suo fondamento l’uomo nella sua verità”.
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