Carcere, il silenzio che uccide

Dalla Rassegna stampa

Non ci sono, purtroppo, solo i suicidi, il cui numero aumenta di giorno in giorno, a causa della crisi che stiamo attraversando. Ci anche altri morti di cui, a differenza dei primi, non si parla nella maniera più assoluta. Si tratta dei suicidi provocati dall'insostenibile situazione in cui versa il sistema carcerario italiano. Su di loro c'è una censura pressoché totale, così come sulla stringente urgenza, denunciata non solo da Marco Pannella (tra i pochi, se non l'unico, in grado di rappresentare la nobiltà della politica) ma dallo stesso presidente Giorgio Napolitano, di arrivare ad una soluzione che cancelli l'attuale vergogna delle detenzioni nel nostro paese creando i presupposti per una riforma seria, strutturale, della giustizia. Nei confronti dei suicidi di detenuti e agenti di polizia penitenziaria verificatisi in carcere, gli organi d'informazione, tranne qualche rarissima eccezione, hanno adottato come per tacita convenzione un silenzio omertoso e connivente con lo sfacelo e la voglia di ghigliottina riscontrabile, ahinoi, oltre che nei dipietristi, anche in movimenti come i grillini.

Eppure i dati sono sotto gli occhi di tutti. Chiunque può prenderne visione su Internet. In dieci anni, dal 2002 al 2012, sono oltre un migliaio, tra suicidi e morti per "cause da accertare", coloro che hanno perso la vita nelle nostre carceri. Solo dall'inizio di quest'anno sono stati ventuno. Numeri che fanno rabbrividire ma che la dicono lunga sulla negazione del diritto in un paese come il nostro, continuamente sanzionato dalla Corte europea per i diritti dell'uomo.Morti il cui nome dovrebbe restare scolpito, come un monito, nelle nostre coscienze e che è, invece, di proposito rimosso. «Nell'analisi di un'istituzione», affermava Michel Foucault, «bisogna distinguere varie cose. In primo luogo quella che si potrebbe chiamare la sua razionalità o il suo fine, cioè gli obiettivi che si prefigge e i mezzi di cui dispone per raggiungere questi obiettivi. In secondo luogo, gli effetti. Solo molto raramente gli effetti coincidono con il fine: così, l'obiettivo del carcere-correzione, il carcere come strumento di riparazione all'errore commesso dall'individuo, non è stato raggiunto.

L'effetto è stato invece contrario e la prigione ha piuttosto rinnovato i comportamenti di delinquenza. Quando l'effetto non coincide con il fine, si hanno parecchie possibilità: o si attua una riforma o si utilizzano questi effetti per un qualcosa che non era stato previsto all'inizio ma che può benissimo avere un senso e un'utilità». Le elementari, condivisibili, constatazioni del filosofo francese, autore di opere come "Sorvegliare e punire", risalgono al 1983, un anno prima della sua prematura scomparsa, vale a dire a circa trent'anni fa. Se rapportate alla situazione attuale del sistema carcerario italiano sembrano drammaticamente profetiche. Nessuno chiede o pretende l'abolizione del carcere come istituzione repressiva totalitaria, anche se una discussione in merito non sarebbe affatto velleitaria. Quel che si vuole e si invoca è, invece, una drastica riforma, a partire da un'amnistia, per stroncare una spirale senza fine di violenza e cancellare dal nostro paese l'onta di insistere e persistere nella flagranza di reato. Troppo o troppo poco?

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